NEUROFEEDBACK DINAMICO: SI APRONO NUOVE FRONTIERE GRAZIE AL NOLEGGIO DEL SISTEMA NEUROPTIMALⓇ

Sono passati ormai sette anni da quando ho aperto la partita iva e ho iniziato questa splendida avventura come Neurotrainer NeuroptimalⓇ che utilizzo nel mio studio abbinandolo alla professione di Counselor.

In tutto questo tempo ho avuto delle soddisfazioni enormi nell’aiutare tante persone a raggiungere i loro obiettivi in termine di benessere psicofisico e crescita personale,
L’esperienza maturata in questo settore è stata notevole, soprattutto grazie alla preziosa collaborazione di psicologi e psicoterapeuti che hanno creduto in me e che mi hanno inviato i loro pazienti con lo scopo di ottenere maggior beneficio utilizzando la psicoterapia insieme al Neurofeedback Dinamico: un binomio che si è dimostrato essere vincente.

Nonostante queste belle premesse, dentro di me avevo la sensazione che si potesse fare molto, molto di più avendo la possibilità di ottimizzare il training con più sessioni e coinvolgendo più persone, a beneficio quindi sia del singolo individuo che della collettività.
Pur non esistendo un protocollo definito e univoco che stabilisca un numero di sessioni da fare e un ritmo da tenere, ho deciso di seguire la modalità tenuta e consigliata dal dott. Francesco Lanza che per primo ha importato in Italia il Neurofeedback Dinamico: far fare ai clienti un ciclo “primario” di 20 sessioni con un ritmo di 2 a settimana.
Le persone che riuscivano a tenere questa “modalità” ottenevano dei buoni e a volte anche ottimi risultati… Alcuni però non potevano venire in studio due volte a settimana, sia per motivi pratici (tempo, distanza ecc.), che economici. Si optava quindi per 1 sessione a settimana, comunque, con buoni risultati anche se, ovviamente, per raggiungerli si doveva aspettare più tempo.

 
Ecco che ad un certo punto mi sorge la domanda… Dal momento che non ci sono controindicazioni e che l’allenamento cerebrale può essere praticato anche tutti i giorni…. che benefici potrebbero ottenere le persone se facessero 3, 4 o anche più sessioni a settimana? E magari comodamente a casa propria senza dover investire troppo tempo e denaro per spostarsi nello studio del professionista?
Con la possibilità anche di poter fare sessioni ai propri familiari o parenti…
Io ero già a conoscenza che soprattutto in America, ma anche in Europa, esisteva la possibilità di noleggiare il sistema NeuroptimalⓇ, ma non ci avevo mai pensato in termini pratici e soprattutto di investire comprando altri sistemi per poi affittarli.

Il Neurofeedback Dinamico (Dynamical NeurofeedbackⓇ) NeuroptimalⓇ non è un dispositivo medico bensì un “wellness device”, cioè un dispositivo del benessere e pertanto non è necessario avere titoli medici o sanitari per poterlo utilizzare.
Può essere definito come una tecnica avanzata di allenamento cerebrale che si pone come obiettivo il miglioramento della plasticità del cervello. La conseguenza di questa “brain gym” è l’ottenimento di un benessere psicofisico generale utile a risolvere o quantomeno mitigare problemi di varia natura: psicologici, fisiologici, cognitivi ed emotivi. 

Da qualche anno ad oggi il sistema NeuroptimalⓇ, soprattutto da quando è uscita la versione 3.0 nel 2018, è diventato completamente automatizzato e di facile utilizzo per chiunque. Pertanto si sta diffondendo sempre di più in tutto il mondo una nuova modalità di utilizzo del Neurofeedback Dinamico: il noleggio

Avrai modo di allenare il tuo cervello comodamente a casa tua, quante volte vorrai!

Stimolato da un mio cliente, a marzo del 2023 decisi di acquistare un secondo sistema da destinare appunto al noleggio…  Ho detto dentro di me: “Perché non provare? …
Beh… ad oggi sono felice possessore di ben 5 sistemi NeuroptimalⓇ.

L’esperienza del noleggio, quindi, è stata e continua ad essere meravigliosa. I vantaggi sono enormi sia per il cliente, per i suoi familiari, ma anche per la mia attività.

Per il cliente i vantaggi del noleggio si possono riassumere nelle righe sottostanti:

  • FLESSIBILITÀ: possibilità di fare le sessioni quando si vuole e quante volte si vuole;
  • COMODITÀ: non ci si deve spostare per andare in uno studio di un professionista, ma si può utilizzare NeuroptimalⓇ comodamente a casa o dove si vuole;          
  • RISPARMIO: il noleggio permette di risparmiare un’enorme quantità di tempo e di denaro. È un piacevole “effetto collaterale” dei primi due vantaggi elencati;    
  • INCLUSIVITÀ: le sessioni sono illimitate e chiunque può usufruirne (parenti, amici, colleghi…). Il costo del noleggio rimane invariato.       
  • MASSIMA EFFICACIA: più alleni il tuo cervello più benefici avrai. Il noleggio ti permette di fare anche una sessione al giorno massimizzando la resa del sistema.

Non esitare a contattarmi per avere informazioni ed eventualmente un preventivo personalizzato del noleggio!!!!!!

Marco Battaglia
3475756036
battamarco78@gmail.com

Deterioramento Cognitivo Post-Cancro(PCCI): effetti positivi utilizzando Neuroptimal®

Il Deterioramento Cognitivo Post-Cancro (PCCI) si osserva in un numero considerevole di donne sopravvissute al cancro al seno, persistendo fino a 20 anni in alcuni sottogruppi ed è in costante aumento considerando che i tassi di mortalità delle patologie oncologiche stanno diminuendo.

Il PCCI viene spesso chiamato, soprattutto negli Stati Uniti, “chemo brain” o “chemo fog”. Questi termini, come da definizione del National Cancer Institue (NIH), vengono utilizzati per descrivere i problemi di pensiero e di memoria che un paziente affetto da cancro può avere prima, durante o dopo il trattamento chemioterapico. Segni e sintomi del “chemio brain” includono comportamento o pensiero disorganizzato, confusione, perdita di memoria e difficoltà a concentrarsi, prestare attenzione, apprendere e prendere decisioni. Le cause possono essere causate dal cancro stesso (come i tumori cerebrali) o dal trattamento del cancro, come la chemioterapia e altri farmaci antitumorali, la radioterapia, la terapia ormonale e la chirurgia.

La maggior parte lo definisce, come gìà anticipato, come una diminuzione della “nitidezza” mentale e lo descrive come l’incapacità di ricordare certe cose e avere problemi a finire compiti, concentrarsi su qualcosa o apprendere nuove abilità.

Questi cambiamenti cognitivi possono rendere le persone incapaci di svolgere attività abituali come andare a lavorare, a fare la spesa oppure continuare a mantenere relazioni sociali. Molte persone aspettano ad informare il proprio medico di base oppure gli specialisti in oncologia di questo cambiamento cognitivo fino a quando non vengono drasticamente ridotte le loro normali attività quotidiane. Dal momento che è importante ottenere aiuto e supporto, sarebbe invece necessario informare i medici relativamente a questi cambiamenti non appena si palesano, anche se all’inizio possono essere piccoli.

Vediamo ora nel dettaglio alcuni esempi di ciò che possono sperimentare i pazienti con “chemo brain”:

  • dimenticare cose che di solito non hanno difficoltà a ricordare (vuoti di memoria);
  • difficoltà di concentrazione (non riescono a concentrarsi su ciò che stanno facendo, hanno una capacità di attenzione ridotta, possono facilmente distrarsi);
  • difficoltà a ricordare dettagli come nomi, date e talvolta eventi importanti;
  • difficoltà a fare più cose contemporaneamente come rispondere al telefono mentre si cucina;
  • difficoltà ad imparare cose nuove;
  • impiegare più tempo a finire le cose (il pensiero è disorganizzato, l’elaborazione di dati è più lenta);
  • difficoltà a ricordare parole comuni;

Per la maggior parte delle persone questi cambiamenti mentali durano solo poco tempo, per altre invece possono durare anche molti anni. La durata della “chemo brain” è un fattore importante in quanto influisce sulla qualità della vita di una persona; quando inizia, quanto dura e quanti problemi provoca può essere diverso per ogni paziente.

I trattamenti per aiutare le persone che soffrono di deficit cognitivo post cancro possono includere:

  • riabilitazione cognitiva: si tratta di attività volte a migliorare le funzioni cerebrali come l’apprendimento, la memorizzazione, la capacità di acquisire nuove informazioni ed eseguire nuovi compiti;
  • esercizio: può migliorare il pensiero e la capacità di concentrazione. Attività come il giardinaggio, prendersi cura di animali domestici o camminare possono aiutare a migliorare i livelli di attenzione e concentrazione;
  • meditazione: può aiutare a migliorare la funzione cerebrale aumentando la concentrazione e la consapevolezza.

Da recenti studi si evince che il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® e il Neurofeedback “tradizionale” (o Biofeedback eeg)  possono ridurre il decadimento cognitivo post-cancro.

Le persone sottoposte a sedute di Biofeedback EEG o a Neurofeedback Dinamico hanno avuto miglioramenti cognitivi come la memoria, la lucidità mentale, la capacità di concentrazione, la capacità di acquisire nuove informazioni e di organizzare compiti più o meno difficili. Anche dal punto di vista fisiologico (miglior qualità del sonno) ed emotivo (minor ansia, minor depressione) i risultati sono stati incoraggianti.

La ricerca più interessante è stata condotta nel 2013 dal dott. Jean Alvarez coadiuvato dal suo team (Dott. David L. Granoff, Dott. Fremonta L.Meyer  e Dott Allan Lundy).

Potete scaricare i risultati di tale ricerca qui.

Concludendo, analogamente alle tendenze nelle neuroscienze cognitive, le attuali strategie di neurofeedback riflettono due direzioni diverse ma complementari: una guidata da un focus sulla localizzazione e l’altra da un focus sulla funzione cerebrale globale. L’approccio più comune, con le sue radici nella scuola di localizzazione delle neuroscienze (Neurofeedback classico o Biofeedback EEG), potrebbe essere caratterizzato come un approccio di “diagnosi e trattamento”, in cui vengono identificate anomalie nelle frequenze delle onde cerebrali in luoghi particolari, di solito per mezzo di un EEG quantitativo. Ricercatori e clinici hanno identificato modelli EEG comunemente associati a particolari sintomi e l’apparecchiatura di neurofeedback può essere programmata per premiare il cervello per aver spostato la sua attività lontano dai modelli associati ai sintomi.

Nel biofeedback EEG (neurofeedback), una visualizzazione in tempo reale dell’attività elettrica del cervello, restituita come informazione visiva o uditiva, consente all’utente di modificare l’attività delle onde cerebrali.

Il presente studio ha utilizzato un nuovo approccio al neurofeedback, radicato nella visione globale della funzione cerebrale. Il sistema NeurOptimal®, sviluppato dalla Zengar Institute (www.Zengar.com) è progettato per allenare il cervello nel suo insieme, senza riferimento a posizioni o frequenze particolari. A differenza degli approcci classici di neurofeedback, in cui il partecipante si impegna attivamente e/o consapevolmente con il software ed è ricompensato per la produzione di schemi EEG prescritti, il partecipante all’approccio Zengar semplicemente “lascia andare” e consente al cervello di utilizzare il feedback, fornito come breve interruzioni della musica che sta ascoltando, per abilitare la sua innata capacità di auto-organizzazione.

N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e che non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche.  È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione.

Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.

Il Counseling per sostenere il Caregiver

Il termine “caregiver” deriva dall’unione di due parole inglesi: “care” che significa “cura“e “giver” che “colui che dà“.

Il caregiver è quindi colui che dà cura, che accudisce e che dà assistenza ad un malato o ad una persona che ha perso totalmente o parzialmente la sua autonomia nel vivere quotidiano. Può essere un familiare o un professionista: nel primo caso lo fa volontariamente e gratuitamente per scelta o necessità.

Il caregiver, quindi, si occupa di soddisfare i bisogni primari della persona che assiste come per esempio occuparsi della sua igiene personale, della vestizione, della preparazione dei pasti, della somministrazione delle medicine ecc. Inoltre può interfacciarsi con le strutture sanitarie o dover accompagnare la persona a fare visite, controlli in ospedale o semplicemente a comprare dei vestiti o altre necessità.

In altre parole la persona che viene aiutata non è, nella maggior parte dei casi, in grado di usicre da sola, occuparsi delle faccende domestiche, curare sè stessa e questi sono i compiti che il caregiver è chiamato a fare.

Da fonti istat del 2015 si stima che i caregiver in Italia siano 7.300.000 e si prevede che possano negli anni continuare ad aumentare visto che il nostro paese è sempre più abitato da persone anziane.

Il caregiver è una figura di assoluta importanza e lo sarà sempre di più negli anni a venire; nella maggior parte dei casi  si tratta di donne (35%) con età media di circa 50 anni mentre per quanto riguarda gli uomoni si tratta di circa un 30%. Nel rimanente 35% dei casi si tratta di famiglie che, non potendo occuparsi del familiare, hanno deciso di rivolgersi ad una Rsa o ad una struttura specializzata.

La persona che viene aiutata invece è rappresentata per il 20% da un figlio/a,  per il 14% dal partner e per il 66% da un genitore.

Attraverso questo articolo voglio porre l’attenzione sulle problematiche e sulle fatiche che il caregiver è chiamato ad affrontare e di come il counseling può supportarlo in maniera efficace.
Le problematiche che incontra “colui che dà cura” sono rappresentate da tre dimensioni:

  1. a) la dimensione personale (esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione

personale);

  1. b) la dimensione relazionale (rischio di isolamento, diminuzione socialità);
  2. c) la dimensione spirituale (difficoltà nel trovare un senso esistenziale, umano e spirituale).

Chi riveste questo ruolo è spesso gravato da un carico di fatiche che aumenta col passare del tempo in quanto il malato con l’avanzare dell’età sarà sempre meno autosufficiente. Si inizia con l’accorgersi che il proprio caro necessita di un accompagnamento in quelle attività che fanno parte della vita quotidiana come il fare la spesa, piuttosto che pagare le bollette, andare a fare una passeggiata. Ci si accorge che magari la persona inizia a perdere la memoria e ha la necessità di essere aiutata; man mano che la malattia avanza c’è la necessità di accompagnare la persona nel soddisfacimento dei bisogni primari (mangiare, bere, muoversi…).

I carichi di lavoro del caregiver vengono normalmente distinti in quattro categorie:

  • il carico oggettivo, cioè il tempo che il caregiver deve dedicare al malato e che necessariamente sottrae a sé stesso con tutto quello che ne consegue;
  • il carico fisico che è la fatica che fa chi si dedica al proprio caro prendedosene cura. E non

si parla solo di fatica fisica, ma anche psicologica. Basti pensare a chi si prende cura di un

malato di Alzheimer che deve necessariamente occuparsi di lui 24 ore su 24;

  • il carico sociale che è collegato al fatto che il caregiver deve rinunciare al tempo che prima

utilizzava per vedersi con gli amici, fare sport o altre attività, lavorare. Col passare del tempo si può sentire sempre più solo e isolato;

  • il carico emotivo che inizia immediatamente in quanto si assiste al cambiamento del proprio caro e non si conoscono le dinamiche che ne conseguono. Non si conosce la malattia che può dare molto fastidio e disturbare. I caregiver spesso lamentano meno energia, stanchezza

eccessiva, incapacità di recuperare le forze col normale riposo. I limiti fisici o emotivi vengono oltrepassati.

Sommando tutti questi carichi la situazione diventa ovviamente difficile da sopportare.

In base a tutto quello che ho fin qui descritto possiamo identificare i seguenti fattori critici nel “caregiver familiare”:

  • stress prolungato dovuto alle cure fisiche ed alle modificazioni dei ruoli precedenti alla malattia;
  • incessante supporto emotivo fornito al partner malato;
  • diminuzione della qualità della vita;
  • il vissuto emotivo dell'”essere in trappola”, come se ogni spazio personale fosse invaso;
  • sentimento di isolamento sociale;
  • gestione dei trasporti del malato, commissioni, compiti domestici.

Ecco che l’intervento di un counselor professionista può essere veramente utile per supportare il caregiver soprattutto nella gestione di queste dinamiche:

  • non accettazione della malattia;
  • mancanza di spazi e tempo per sé;
  • vissuti emotivi contrastanti;
  • vivere relazioni conflittuali con la famiglia;
  • avere difficoltà comunicative co la famiglia o con gli operatori dell’assistenza.

Inizialmente, di fronte ad una malattia di un proprio caro, ci possono essere delle reazioni iniziali di confusione, incredulità e negazione. In questa fase è importante aiutare la persona a prendere consapevolezza della malattia gestendo le varie reazioni emotive che possono scaturire da tale situazione. Successivamente si dovrà aiutare il cliente ad accettare la nuova situazione e il nuovo ruolo che egli dovrà eseguire, cioè quello del caregiver; piano piano sarà in grado di affrontare le proprie sofferenze e superarle.

Una caratteristica che accomuna molti caregiver è la “difficoltà di delega”, cioè la difficoltà di farsi aiutare da qualcun altro alleggerendo in questo modo  il suo lavoro nell’accudimento del proprio caro.

Un altro problema da gestire è la mancanza di spazi e di tempo per sé. Il caregiver fatica ad occuparsi di sé e questo può essere molto dannoso per la relazione con il malato. Un caregiver stanco e frustrato sarà sicuramente meno calmo, meno empatico con la potenzialità di diventare inefficace. Compito del counselor sarà quello di aiutare il cliente a immaginare nuovi scenari in cui si prenderà cura di sé, fissare degli obiettivi e poi passare all’azione.

Anche i sentimenti e il carico emotivo del caregiver non sono da sottovalutare. Spesso delusione e fallimento possono provocare rabbia, irritazione e nervosismo: in un primo momento egli si arrabbia con sé stesso, si percepisce impotente e incapace di risolvere i problemi. In un secondo momento il caregiver si può arrabbiare con il malato perchè è caduto in questa situazione oppure perchè si comporta in questo modo. Il counselor dovrà informare il cliente che è la malattia che genera questi comportamenti, e non il malato a non volersi impegnare a comportarsi diversamente.

Il counselor può essere di notevole aiuto anche nel gestire la comunicazione del suo cliente con gli altri membri della sua famiglia, ma anche con gli operatori del settore come medici, assistenti sociali, infermieri ecc ecc.

Se ti trovi in una situazione in cui devi gestire un tuo familiare che ha bisogno della tua cura e assistenza quotidiana non esitare a farti aiutare. Se stai bene e ti prendi cura di te stesso sarai in grado di aiutare il tuo caro più efficacemente: aiutare presuppone volersi bene. Chiamami ed insieme troveremo tutte le soluzioni e strategie necessarie per alleggerire il peso dell’accudimento.

Alzheimer e demenze: Neuroptimal® in supporto del malato e del caregiver

L’Alzheimer è un tipo di demenza che colpisce la memoria, il pensiero e il comportamento i cui sintomi diventano progressivamente così gravi da interferire con le attività quotidiane.

L’Alzheimer è la causa più comune di demenza, un termine generico che viene utilizzato per indicare la perdita di memoria e altre capacità cognitive che possono peggiorare tantissimo la qualità della vita e ridurre tantissimo l’autonomia e l’indipendenza di una persona. Si stima che l’Alzheimer rappresenta tra il 60% e l’80% i casi di demenza; non è una counseguenza del normale processo di invecchiamento, nonostante il più grande fattore di rischio noto sia l’aumento dell’età e la maggior parte delle persone che soffrono di questa malattia  ha dai 65 anni in su.

È una malattia progressiva in cui i sintomi della demenza peggiorano gradualmente nel corso degli anni. Nelle sue fasi iniziali la perdita di memoria è lieve, ma in fase avanzata gli individui perdono la capacità di portare avanti una conversazione e rispondere agli stimoli esterni ed essere quindi incapaci di iniziare, proseguire e portare a termine qualsiasi tipo di azione in maniera autonoma: vestirsi, andare in bagno, mangiare, occuparsi della propria igiene intima, lavarsi ecc.

In media una persona con Alzheimer vive dai 4 agli 8 anni dopo la diagnosi, ma può vivere fino a 20 anni a seconda di vari fattori.

Il sintomo più precoce è la difficoltà di ricordare le informazioni appena apprese, oltre a confusione mentale e perdita di memoria; tutte questi sintomi possono essere il segnale che le cellule del cervello stanno morendo. I cambiamenti dell’Alzheimer iniziano nella parte del cervello che influenza l’apprendimento. Man mano che la malattia avanza nel cervello porta a sintomi sempre più gravi tra cui disorientamento, sbalzi di umore e cambiamenti comportamentali, una forte confusione su eventi, tempi e luoghi, sospetti infondati su familiari, amici od peratori sanitari, perdita di memoria anche grave, aggressività oppure profonda apatia, difficoltà a parlare, deglutire o camminare.  Nelle fasi medie o avanzate il malato inizia a perdere la memoria e a non riconoscere più i propri familiari.

Molto spesso la persona affetta da Alzheimer non si rende conto di avere un problema, che viene però individuato da familiari o amici in quanto testimoni di questi cambiamenti cognitivi e comportamentali.

Gli scienziati affermano che la malattia di Alzheimer possa essere causata dall’accumulo progressivo nel cervello di una sostanza tossica chiamata “betamiloide”, una proteina ha un effetto nocivo sul metabolismo e sulla vita dei neuroni. La betamiloide è possibile vederla obiettivamente nel cervello utilizzando dei microscopi attraverso i quali si possono notari delle “placche o grumi” o dei “gomitoli” che rappresentano appunto l’accumulo di tale sostanza che causa la morte progressiva dei neuroni.

Una delle acquisizioni più importanti che abbiamo a livello scientifico è che l’amiloide inizia ad accumularsi non in età avanzata, bensì già dalla mezza età, intorno ai 40/50 anni. Col passare del tempo, in alcune persone, l’accumulo di questa sostanza tossica supera una certa soglia e la persona inizia ad accusare i primi sintomi che la portano poi alla diagnosi di Alzheimer.

Non tutti i cervelli accumulano betamiloide. Ci sono dei casi molto fortunati in cui l’accumulo è nullo oppure estremamente lento che la persona non svilupperebbe la malattia di alzheimer nemmeno se campasse 120 anni.

Non tutta la comunità scientifica è d’accordo a riguardo. Alcuni scienziati affermano che l’accumulo di questa proteina sia l’effetto della malattia e non la causa.

È evidente che la qualità della vita del malato di Alzheimer diminuisce proporzionalmente all’aggravarsi dei sintomi e coinvolge anche chi si prende cura di lui, normalmente un familiare di primo grado: spesso è il coniuge, ma anche uno o più figli, il fratello o la sorella…. Queste persone vengono definite “caregiver” dall’inglese “care” che significa cura e “giver” che significa colui che da”.

Il caregiver può essere anche esterno alla famiglia come per esempio un badante.

Normalmente il caregiver familiare si occupa del malato dalla mattina alla sera ed è spesso sottoposto a forte stress. Il caregiver nel suo compito può incontrare problemi che intaccano:

  • la dimensione personale;
  • la dimensione relazionale:
  • la dimensione spirituale.

Per quanto riguarda la dimensione personale il caregiver può andare incontro ad un esaurimento emotivo: in questo caso sperimenta la sensazione di aver oltrepassato i propri limiti sia fisici che emotivi. Si sente incapace di recuperare ed è ormai privo dell’energia per affrontare nuovi progetti o persone. Inoltre le energie impiegate nella cura della persona malata possono intaccare le relazioni del caregiver che non ha più la voglia di coltivare le amicizie e ricavarsi del tempo per sè.

A livello spirituale il caregiver può trovare difficoltà nel dare un senso esistenziale e umano all’esperienza che sta vivendo.

Il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® si è dimostrato essere un ottimo intervento per aiutare sia i malati di Alzheimer che i Caregiver che li assistono.

Una ricerca promossa dalla dott.ssa francese Nathalie Gunther, psicologa clinica e supervisionata dal dott. Thierry Hergueta, psicologo e psicoterapeuta, ha dato importanti e significativi risultati.

Dopo un ciclo di sessioni di Neurofeedback Dinamico i clienti con Alzheimer sono migliorati dal punto di vista comportamentale (meno aggressività, più collaborazione), emotivo (meno ansia, apatia o irritabilità), fisiologico (miglior qualità del sonno).  In sostanza, pur non potendo intervenire direttamente sulla malattia, il Neurofeedback Dinamico è risultato marcatamente efficace nel migliorare la qualità della vita dei soggetti con Alzheimer. Per quanto riguarda i loro careviger, Neuroptimal® ha evidenziato notevoli potenzialità per rendere queste persone più resilienti, alleggerirli dal peso dell’accudimento diminuendone lo stato ansiogeno e stressogeno.

Se volete vedere le slide e i dettagli di tare ricerca cliccate qui.

N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche.  È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione.

Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.

Il Cambiamento

Il cambiamento è una costante della realtà a cui non è possibile sottrarsi. È sufficiente osservare la natura o le persone per rendersi conto di tutte le continue trasformazioni a cui sono soggette. La consapevolezza del cambiamento è più evidente quando noi ne facciamo esperienza diretta. Ma in definitiva come possiamo definire il cambiamento o meglio cosa può costituire:

  • una necessità: la crisalide che diventa farfalla per nor morire;
  • un adattamento: ad esempio quando due genitori cambiano le loro priorità individuali e di coppia per amore dei figli;
  • un’opportunità; quando una persona vuole rimettersi in gioco perchè stanca della situazione che sta vivendo.

Il cambiamento può essere visto anche come “il caos creativo della vita” oppure “la consapevolezza del rinnovarsi del tempo e della vita”. Lo viviamo tutti, nelle forme più svariate, nella soggettività delle percezioni, attraverso un’ampia gamma di sfumature emotive, elaborando profonde riflessioni o rimanendo sulla superficie del significato con le parole di tutti i giorni.

La ruota della nostra storia ha sempre girato intorno a due assi incrociati: la paura del nuovo ed il coraggio di cambiare.

Il cambiamento può mettere in crisi una persona. La parola crisi viene dal greco “krisis” e significa “trasformazione”, ma anche “separazione, scelta, giudizio”. Quando ad esempio una persona scompare viviamo questo cambiamento come una separazione che ci genera un dolore fortissimo; anche ogni decisione che prendiamo comporta la scelta di una direzione da prendere che ci costringe a cambiare schemi, comportamenti, riferimenti conosciuti per svilupparne altri del tutto nuovi: “tutto cambia, nulla è per sempre”.

Il cambiamento può essere scelto o subito, imposto o promosso, aspettato oppure inaspettato….

A volte rappresenta una scelta per cambiare qualcosa che non ci piace o non ci soddisfa: vogliamo dimagrire e quindi decidiamo di “metterci in dieta”, non siamo soddisfatti a livello professionale e cerchiamo un nuovo lavoro ecc ecc..

Possiamo, in sintesi, indicare il cambiamento come:

  • la natura stessa della vita, la sua caratteristica più distintiva;
  • un evento oppure una situazione che ci colpisce come un qualcosa di nuovo o di diverso che, dal nostro punto di vista, prima non esisteva o non era conosciuto;
  • un comportamento intenzionale od una strategia che mettiamo in atto per raggiungere uno “stato desiderato” a livello personale, professionale o esistenziale;
  • una dimensione sociologica che riguarda “il progresso” delle comunità umane e quindi degli individui che ne fanno parte.

Ognuno di noi è chiamato ad essere il timoniere che governa il veliero della propria vita, in un oceano di cambiamenti e trasformazioni. Per governare i cambiamenti in modo soddisfacente, così come del resto per vivere, sono necessarie le passioni, come ad esempio quelle che viviamo nella vita personale, affettiva e lavorativa: sono i venti che ci condurranno nel tranquillo porto della saggezza. Occorre quindi avere chiara la “rotta da seguire” : uno stile di vita intelligente, essere pronti e bravi a recuperare le “derive” che metaforicamente rappresentano i momenti di crisi, evitando in questo modo pericolosi “naufragi” come ad esempio malesseri o patologie o ritrovarsi “in secca” in fasi di stallo prolungato.

Sviluppare la capacità di governare i cambiamenti significa, da un lato,  saper riconoscere le cosiddette “invarianze”, dall’altro, bisogna saper riconoscere cosa è soggetto a cambiamento e viverlo in maniera attiva e consapevole: bisogna nuotare nella corrente della vita, cercando a volte anche degli appigli per riposarsi e non farsi trascinare o sballottare dai flutti.

L’immagine di un mondo che fugge risucchiando vorticosamente dietro di sè le vite delle persone e delle nazioni, di tutto il mondo, rappresenta una tipica icona dell’era contemporanea. Nuovi rischi e nuove incertezze si alternano o si sovrappongono a nuove opportunità e nuove scoperte, nessuno può “far finta di nulla” o ritenersi escluso dalla globalizzazione.

È necessario configurare un sistema di ancoraggio interno per essere pienamente “centrati in sé stessi durante la gestione di momenti critici e cambiamenti potenzialmente destabilizzanti, come ad esempio un mancato raggiungimento di un obiettivo personale, un fallimento in un rapporto affettivo o la perdita di un lavoro. Essere centrati in sé stessi in termini di autostima, calma e lucidità di pensiero. Le persone che nel tempo diventano abili nell’applicare la tecnica dell’ancoraggio in sé stessi, nelle situazioni di criticità, sviluppano tutto il loro potenziale nell’affrontare e risolvere problemi, nel rafforzare l’autostima e nel rendere il proprio equilibrio interiore refrattario alla negatività emanata da certe persone o insita in alcune circostanze indesiderate. Senza la capacità di ancorarsi in sé stesse, le persone si ritrovano in balia degli eventi o “vanno avanti” per inerzia.

Le persone equilibrate, nel corso della loro vita assecondano o guidano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e di miglioramento, assumendosi in prima persona la “responsabilità” del governo degli eventi.

Tali significati sono alla base, ad esempio, del concetto anglosassone di “Empowerment” che possiamo tradurre con le parole “Conferire potere, dare potere”….  Le persone “empowered” sanno come comportarsi, come agire, come intervenire. Chi riesce a governare in modo intelligente le evoluzioni personali e lo scenario nel quale si trova a vivere, senza ritrovarsi in balia delle circostanze, ha sicuramente una marcia in più ed in qualche caso anche la trazione integrale rispetto a quelle persone che passano la vita a “grattare” con la vana speranza di vincere qualcosa.

Ognuno di noi affronta bene o male le sue piccole o grandi difficoltà della vita, ma quello che oggi possiamo osservare è il fatto che sempre più persone reagiscono patologicamente ai cambiamenti “imposti” della vita.

Infatti possiamo identificare “persone equilibrate“, cioè individui che assecondano e governano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e “persone patologiche” che reagiscono, apputno, in maniera patologica ai cambiamenti.

Per la maggior parte delle persone, nella realtà, non è mai facile affrontare un cambiamento, soprattutto quando è imposto o imprevisto. Il “segreto” sta comunque nel viverlo nel modo più costruttivo e impositivo possibile, traendo spunti per il futuro.

La strategia consigliata è di lavorare su sé stessi attraverso il porsi alcune domande riflessive e stabilire piani d’azione utilizzando le risposte che ognuno si è dato o ha ricevuto come indicazione da qualcun altro:

  • “Cosa sta cercando di accadere?”
  • “Se nulla avviene per caso, questo evento o “coincidenza non casuale” cosa può suggerire alla mia vita?”
  • “Quali vantaggi posso trarre da questa nuova situazione?”
  • “Con chi posso confrontarmi per ragionare costruttivamente sul cambiamento in atto”?
  • “Quali altri significati di vita posso attribuire a questo cambiamento?”
  • “Perchè non considerare la situazione come un’occasione per mettere alla prova le mie capacità?

L’alternativa a questo fondamentale atteggiamento introspettivo/progettuale è subire passivamente il cambiamento e quindi rimanere travolti o paralizzati dagli eventi.

Nello stesso tempo, non bisogna rimanere vittime dell’arroganza che nasce dall’aver affrontato con successo un cambiamento, nè cadere nella presunzione di ritenersi immuni da “difetti”.

 

Il counseling e la gestione dei cambiamenti

Il counseling è un percorso molto utile per aiutare le persone a gestire i cambiamenti. Attraverso i colloqui di counseling ti posso aiutare ad affrontare i vari cambiamenti della vita. Come ho già accennato precedentemente il cambiamento può essere subito ed inaspettato come ad esempio un licenziamento oppure essere lasciati dal proprio partner. Entrambi gli esempi che ho citato possono essere fonti di stress, sofferenza, preoccupazioni che possono creare un forte disagio.
Il mio compito è quello di ascoltarti con profonda empatia, aiutarti ad esprimere le tue emozioni soprattutto nella prima fase. Successivamente cercherò insieme a te di identificare, riattivare ed utilizzare le tue risorse per migliorare le tue capacità di adattamento. La capacità di adattarsi alle situazioni è una caratteristica di tutti gli esseri viventi: il mio lavoro ti aiuterà a trovare le migliori strategie mentali e comportamentali per fronteggiare in modo adeguato situazioni stressanti come possono essere quelle conseguenti a un cambiamento.

A volte il cambiamento può essere una scelta, come ad esempio migliorare il proprio stile di vita smettendo di fumare o decidendo di perdere peso. In questo secondo caso sarà per me importante identificare la qualità della tua motivazione a cambiare: si stratta di velleità o di volontà?

La velleità è la fase iniziale del processo di cambiamento in cui si ha preso consapevolezza di un problema ma non si ha ancora deciso di intraprendere azioni per risolverlo (vorrei, mi piacerebbe…). La volontà rappresenta la fase del processo io cui si è decisi a cambiare nell’immediato (voglio cambiare…). Evidentemente nella “volontà” c’è una motivazione superiore rispetto alla “velleità”. Insieme cercheremo di capire quali possono essere le resistenze e le riluttanze al cambiamento per poi trovare soluzioni e strategie per superarle.