Deterioramento Cognitivo Post-Cancro(PCCI): effetti positivi utilizzando Neuroptimal®

Il Deterioramento Cognitivo Post-Cancro (PCCI) si osserva in un numero considerevole di donne sopravvissute al cancro al seno, persistendo fino a 20 anni in alcuni sottogruppi ed è in costante aumento considerando che i tassi di mortalità delle patologie oncologiche stanno diminuendo.

Il PCCI viene spesso chiamato, soprattutto negli Stati Uniti, “chemo brain” o “chemo fog”. Questi termini, come da definizione del National Cancer Institue (NIH), vengono utilizzati per descrivere i problemi di pensiero e di memoria che un paziente affetto da cancro può avere prima, durante o dopo il trattamento chemioterapico. Segni e sintomi del “chemio brain” includono comportamento o pensiero disorganizzato, confusione, perdita di memoria e difficoltà a concentrarsi, prestare attenzione, apprendere e prendere decisioni. Le cause possono essere causate dal cancro stesso (come i tumori cerebrali) o dal trattamento del cancro, come la chemioterapia e altri farmaci antitumorali, la radioterapia, la terapia ormonale e la chirurgia.

La maggior parte lo definisce, come gìà anticipato, come una diminuzione della “nitidezza” mentale e lo descrive come l’incapacità di ricordare certe cose e avere problemi a finire compiti, concentrarsi su qualcosa o apprendere nuove abilità.

Questi cambiamenti cognitivi possono rendere le persone incapaci di svolgere attività abituali come andare a lavorare, a fare la spesa oppure continuare a mantenere relazioni sociali. Molte persone aspettano ad informare il proprio medico di base oppure gli specialisti in oncologia di questo cambiamento cognitivo fino a quando non vengono drasticamente ridotte le loro normali attività quotidiane. Dal momento che è importante ottenere aiuto e supporto, sarebbe invece necessario informare i medici relativamente a questi cambiamenti non appena si palesano, anche se all’inizio possono essere piccoli.

Vediamo ora nel dettaglio alcuni esempi di ciò che possono sperimentare i pazienti con “chemo brain”:

  • dimenticare cose che di solito non hanno difficoltà a ricordare (vuoti di memoria);
  • difficoltà di concentrazione (non riescono a concentrarsi su ciò che stanno facendo, hanno una capacità di attenzione ridotta, possono facilmente distrarsi);
  • difficoltà a ricordare dettagli come nomi, date e talvolta eventi importanti;
  • difficoltà a fare più cose contemporaneamente come rispondere al telefono mentre si cucina;
  • difficoltà ad imparare cose nuove;
  • impiegare più tempo a finire le cose (il pensiero è disorganizzato, l’elaborazione di dati è più lenta);
  • difficoltà a ricordare parole comuni;

Per la maggior parte delle persone questi cambiamenti mentali durano solo poco tempo, per altre invece possono durare anche molti anni. La durata della “chemo brain” è un fattore importante in quanto influisce sulla qualità della vita di una persona; quando inizia, quanto dura e quanti problemi provoca può essere diverso per ogni paziente.

I trattamenti per aiutare le persone che soffrono di deficit cognitivo post cancro possono includere:

  • riabilitazione cognitiva: si tratta di attività volte a migliorare le funzioni cerebrali come l’apprendimento, la memorizzazione, la capacità di acquisire nuove informazioni ed eseguire nuovi compiti;
  • esercizio: può migliorare il pensiero e la capacità di concentrazione. Attività come il giardinaggio, prendersi cura di animali domestici o camminare possono aiutare a migliorare i livelli di attenzione e concentrazione;
  • meditazione: può aiutare a migliorare la funzione cerebrale aumentando la concentrazione e la consapevolezza.

Da recenti studi si evince che il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® e il Neurofeedback “tradizionale” (o Biofeedback eeg)  possono ridurre il decadimento cognitivo post-cancro.

Le persone sottoposte a sedute di Biofeedback EEG o a Neurofeedback Dinamico hanno avuto miglioramenti cognitivi come la memoria, la lucidità mentale, la capacità di concentrazione, la capacità di acquisire nuove informazioni e di organizzare compiti più o meno difficili. Anche dal punto di vista fisiologico (miglior qualità del sonno) ed emotivo (minor ansia, minor depressione) i risultati sono stati incoraggianti.

La ricerca più interessante è stata condotta nel 2013 dal dott. Jean Alvarez coadiuvato dal suo team (Dott. David L. Granoff, Dott. Fremonta L.Meyer  e Dott Allan Lundy).

Potete scaricare i risultati di tale ricerca qui.

Concludendo, analogamente alle tendenze nelle neuroscienze cognitive, le attuali strategie di neurofeedback riflettono due direzioni diverse ma complementari: una guidata da un focus sulla localizzazione e l’altra da un focus sulla funzione cerebrale globale. L’approccio più comune, con le sue radici nella scuola di localizzazione delle neuroscienze (Neurofeedback classico o Biofeedback EEG), potrebbe essere caratterizzato come un approccio di “diagnosi e trattamento”, in cui vengono identificate anomalie nelle frequenze delle onde cerebrali in luoghi particolari, di solito per mezzo di un EEG quantitativo. Ricercatori e clinici hanno identificato modelli EEG comunemente associati a particolari sintomi e l’apparecchiatura di neurofeedback può essere programmata per premiare il cervello per aver spostato la sua attività lontano dai modelli associati ai sintomi.

Nel biofeedback EEG (neurofeedback), una visualizzazione in tempo reale dell’attività elettrica del cervello, restituita come informazione visiva o uditiva, consente all’utente di modificare l’attività delle onde cerebrali.

Il presente studio ha utilizzato un nuovo approccio al neurofeedback, radicato nella visione globale della funzione cerebrale. Il sistema NeurOptimal®, sviluppato dalla Zengar Institute (www.Zengar.com) è progettato per allenare il cervello nel suo insieme, senza riferimento a posizioni o frequenze particolari. A differenza degli approcci classici di neurofeedback, in cui il partecipante si impegna attivamente e/o consapevolmente con il software ed è ricompensato per la produzione di schemi EEG prescritti, il partecipante all’approccio Zengar semplicemente “lascia andare” e consente al cervello di utilizzare il feedback, fornito come breve interruzioni della musica che sta ascoltando, per abilitare la sua innata capacità di auto-organizzazione.

N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e che non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche.  È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione.

Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.

Alzheimer e demenze: Neuroptimal® in supporto del malato e del caregiver

L’Alzheimer è un tipo di demenza che colpisce la memoria, il pensiero e il comportamento i cui sintomi diventano progressivamente così gravi da interferire con le attività quotidiane.

L’Alzheimer è la causa più comune di demenza, un termine generico che viene utilizzato per indicare la perdita di memoria e altre capacità cognitive che possono peggiorare tantissimo la qualità della vita e ridurre tantissimo l’autonomia e l’indipendenza di una persona. Si stima che l’Alzheimer rappresenta tra il 60% e l’80% i casi di demenza; non è una counseguenza del normale processo di invecchiamento, nonostante il più grande fattore di rischio noto sia l’aumento dell’età e la maggior parte delle persone che soffrono di questa malattia  ha dai 65 anni in su.

È una malattia progressiva in cui i sintomi della demenza peggiorano gradualmente nel corso degli anni. Nelle sue fasi iniziali la perdita di memoria è lieve, ma in fase avanzata gli individui perdono la capacità di portare avanti una conversazione e rispondere agli stimoli esterni ed essere quindi incapaci di iniziare, proseguire e portare a termine qualsiasi tipo di azione in maniera autonoma: vestirsi, andare in bagno, mangiare, occuparsi della propria igiene intima, lavarsi ecc.

In media una persona con Alzheimer vive dai 4 agli 8 anni dopo la diagnosi, ma può vivere fino a 20 anni a seconda di vari fattori.

Il sintomo più precoce è la difficoltà di ricordare le informazioni appena apprese, oltre a confusione mentale e perdita di memoria; tutte questi sintomi possono essere il segnale che le cellule del cervello stanno morendo. I cambiamenti dell’Alzheimer iniziano nella parte del cervello che influenza l’apprendimento. Man mano che la malattia avanza nel cervello porta a sintomi sempre più gravi tra cui disorientamento, sbalzi di umore e cambiamenti comportamentali, una forte confusione su eventi, tempi e luoghi, sospetti infondati su familiari, amici od peratori sanitari, perdita di memoria anche grave, aggressività oppure profonda apatia, difficoltà a parlare, deglutire o camminare.  Nelle fasi medie o avanzate il malato inizia a perdere la memoria e a non riconoscere più i propri familiari.

Molto spesso la persona affetta da Alzheimer non si rende conto di avere un problema, che viene però individuato da familiari o amici in quanto testimoni di questi cambiamenti cognitivi e comportamentali.

Gli scienziati affermano che la malattia di Alzheimer possa essere causata dall’accumulo progressivo nel cervello di una sostanza tossica chiamata “betamiloide”, una proteina ha un effetto nocivo sul metabolismo e sulla vita dei neuroni. La betamiloide è possibile vederla obiettivamente nel cervello utilizzando dei microscopi attraverso i quali si possono notari delle “placche o grumi” o dei “gomitoli” che rappresentano appunto l’accumulo di tale sostanza che causa la morte progressiva dei neuroni.

Una delle acquisizioni più importanti che abbiamo a livello scientifico è che l’amiloide inizia ad accumularsi non in età avanzata, bensì già dalla mezza età, intorno ai 40/50 anni. Col passare del tempo, in alcune persone, l’accumulo di questa sostanza tossica supera una certa soglia e la persona inizia ad accusare i primi sintomi che la portano poi alla diagnosi di Alzheimer.

Non tutti i cervelli accumulano betamiloide. Ci sono dei casi molto fortunati in cui l’accumulo è nullo oppure estremamente lento che la persona non svilupperebbe la malattia di alzheimer nemmeno se campasse 120 anni.

Non tutta la comunità scientifica è d’accordo a riguardo. Alcuni scienziati affermano che l’accumulo di questa proteina sia l’effetto della malattia e non la causa.

È evidente che la qualità della vita del malato di Alzheimer diminuisce proporzionalmente all’aggravarsi dei sintomi e coinvolge anche chi si prende cura di lui, normalmente un familiare di primo grado: spesso è il coniuge, ma anche uno o più figli, il fratello o la sorella…. Queste persone vengono definite “caregiver” dall’inglese “care” che significa cura e “giver” che significa colui che da”.

Il caregiver può essere anche esterno alla famiglia come per esempio un badante.

Normalmente il caregiver familiare si occupa del malato dalla mattina alla sera ed è spesso sottoposto a forte stress. Il caregiver nel suo compito può incontrare problemi che intaccano:

  • la dimensione personale;
  • la dimensione relazionale:
  • la dimensione spirituale.

Per quanto riguarda la dimensione personale il caregiver può andare incontro ad un esaurimento emotivo: in questo caso sperimenta la sensazione di aver oltrepassato i propri limiti sia fisici che emotivi. Si sente incapace di recuperare ed è ormai privo dell’energia per affrontare nuovi progetti o persone. Inoltre le energie impiegate nella cura della persona malata possono intaccare le relazioni del caregiver che non ha più la voglia di coltivare le amicizie e ricavarsi del tempo per sè.

A livello spirituale il caregiver può trovare difficoltà nel dare un senso esistenziale e umano all’esperienza che sta vivendo.

Il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® si è dimostrato essere un ottimo intervento per aiutare sia i malati di Alzheimer che i Caregiver che li assistono.

Una ricerca promossa dalla dott.ssa francese Nathalie Gunther, psicologa clinica e supervisionata dal dott. Thierry Hergueta, psicologo e psicoterapeuta, ha dato importanti e significativi risultati.

Dopo un ciclo di sessioni di Neurofeedback Dinamico i clienti con Alzheimer sono migliorati dal punto di vista comportamentale (meno aggressività, più collaborazione), emotivo (meno ansia, apatia o irritabilità), fisiologico (miglior qualità del sonno).  In sostanza, pur non potendo intervenire direttamente sulla malattia, il Neurofeedback Dinamico è risultato marcatamente efficace nel migliorare la qualità della vita dei soggetti con Alzheimer. Per quanto riguarda i loro careviger, Neuroptimal® ha evidenziato notevoli potenzialità per rendere queste persone più resilienti, alleggerirli dal peso dell’accudimento diminuendone lo stato ansiogeno e stressogeno.

Se volete vedere le slide e i dettagli di tare ricerca cliccate qui.

N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche.  È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione.

Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.

Effetti del Neuroptimal® Dynamical Neurofeedback su ansia e depressione

La Dottoressa Linda Beckett Md e il Dr. Janet McCulloch Md, fondatori dell’ Istituto di Psicoterapia e Neurofeedback a Kingston, Ontario (Canada), hanno condotto nel 2010 una ricerca per verificare gli effetti delle sessioni di Neurofeeddback Dinamico sui sintomi di ansia e depressione.

L’ansia è uno stato psichico di un individuo, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di intensa preoccupazione o paura, relativa a uno stimolo ambientale specifico, associato a una mancata risposta di adattamento da parte dell’organismo in una determinata situazione che si esprime sotto forma di stress per l’individuo stesso. La sua forma patologica costituisce i disturbi d’ansia. L’ansia è una complessa combinazione di emozioni che includono paura, apprensione e preoccupazione, ed è spesso accompagnata da sensazioni fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea, tremore interno, mal di pancia, dolori intestinali. Può esistere come disturbo cerebrale primario oppure può essere associata ad altri problemi medici, inclusi altri disturbi psichiatrici. I segni somatici sono dunque un’iperattività del sistema  nervoso autonomo e in generale della classica risposta del sistema simpatico di tipo “combatti o fuggi“.

Si distingue dalla paura vera e propria per il fatto di essere aspecifica, vaga o derivata da un conflitto interiore. L’ansia sembra avere varie componenti di cui una cognitiva, una somatica, una emotiva, una comportamentale. La componente cognitiva comporta aspettative di un pericolo diffuso e incerto. Dal punto di vista somatico (o fisiologico), il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’emergenza): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno e  quelle digestivo diminuiscono. Esternamente i segni somatici dell’ansia possono includere pallore della pelle, sudore, tremore e dilatazione pupillare.

Dal puto di vista emotivo, l’ansia causa un senso di terrore o panico, nausea e brividi. Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia comportamenti volontari sia involontari, diretti alla fuga o all’evitare la fonte dell’ansia.  Questi comportamenti sono sono frequenti e spesso non-adattivi, dal momento che sono i più estremi nei disturbi d’ansia. In ogni caso l’ansia non sempre è patologica o non-adattiva: è un’emozione comune come la paura, la rabbia, la tristezza e la felicità, ed è una funzione importante in relazione alla sopravvivenza. (Fonte: Wikipedia)

La depressione è una patologia psichiatrica piuttosto diffusa che può interessare tanto gli adulti, i giovani e gli anziani, quanto i bambini.

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la malattia depressiva non interessa solamente la sfera emotiva e l’umore del paziente, ma interessa anche il corpo, influenzando comportamenti e manifestandosi anche con sintomi fisici.

La depressione può manifestarsi sia in pazienti di sesso maschile che in pazienti di sesso femminile, tuttavia, si stima che la malattia tenda a colpire maggiormente quest’ultima categoria.

I criteri per la diagnosi di depressione sono elencati d DSM-IV (Manuale diagnostico-statistico delle patologie psichiatriche)

Occorre che 5 o più dei seguenti sintomi siano stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentino un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi dev’essere costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere.

Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o come osservato da altri.

  1. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
  2. Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
  3. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
  4. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
  5. Affaticamento o mancanza di energia quasi ogni giorno.
  6. Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni giorno.
  7. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno.
  8. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l’elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio.

Occorre inoltre che:

  • I sintomi causino disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre importanti aree.
  • I sintomi non siano dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale.
  • I sintomi non siano meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita di una persona cara i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio.

(Fonte: www.fondazioneveronesi.it)

A seconda di vari fattori esistono vari tipi di depressione: maggiore, reattiva, endogena, infantile, adolescenziale, senile, post-partum, bipolare ecc ecc.

Attraverso le sessioni di Neuroptimal® i ricercatori  (Dottoressa Linda Beckett Md e il Dr. Janet McCulloch Md) coinvolti hanno potuto riscontrare una significativa riduzione dei sintomi sia dell’ansia che della depressione. Per visionare o scaricare i risultati di tale ricerca clicca QUI.  È importante, per quanto mi riguarda, ricordare che Neuroptimal® non è un dispositivo medico e che non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche.
È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione.

La Food & Drug Administration ha inserito il Neurofeedback Dinamico come prodotto di “General Welness” cioè benessere generale. Infatti il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.

ADHD E NEUROPTIMAL®: risultati positivi dalla Florida

ADHD è una sigla, o meglio è l’acronimo inglese , che sta per: “Attention Deficit Hyperactivity Disorder”, cioè “Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività“.

In ambito clinico l’ADHD è classificato come un disturbo del neurosviluppo che si manifesta nelle sue tre componenti:

  • disattenzione;
  • iperattività;
  • impulsività.

Per quanto riguarda la disattenzione la difficoltà del bambino è quella di inibire tutti quegli stimoli irrilevanti per i compito e a mantenere l’attenzione per un lasso di tempo sufficiente per terminare l’attività in cui è coinvolto sia esso un compito scolastico oppure un’attività sportiva.

Il secondo sintomo è l‘iperattività che non è solo motoria come per esempio continuare ad alzarsi dal banco di scuola oppure a casa non riuscire a guardare interamente un film senza alzarsi continuamente dal divano, ma è anche verbale rappresentata dalla tendenza a parlare troppo, a non rispettare le regole conversazionali interrompendo gli altri quando parlano oppure a soprapporsi ad essi oppure a non rispettare l’argomento della discussione.

Il terzo sintomo è l‘impulsività che è un pattern di risposta eccessivamente rapido agli stimoli ambientali nel senso che il bambino ad esempio tende a rispondere all’insegnante ancor prima che finisca una domanda con il rischio ovviamente di sbagliare.

A volte può accadere che non tutti e tre i sintomi siano presenti in egual misura: ci possiamo ad esempio trovare di fronte ad un bambino che non presenta iperattività motoria, ma è in grande difficoltà se deve mantenere l’attenzione per poter ascoltare un insegnante o terminare un compitvo.

Il disturbo ADHD diventa evidente nel corso della scuola primaria, soprattutto quanto aumentano le richieste di autoregolazione e autocontrollo e di mantenimento dello sforzo da parte della scuola.

Alcuni segnali di disregolazione comportamentale e di disregolazione attentiva possono emergere già durante la scuola dell’infanzia che dovremmo essere in grado di rilevare per approntare gli adattamenti educativi necessari.

È un disturbo che va a colpire non solo gli apprendimenti del bambino, ma anche il suo adattamento sociale, nel senso che il bambino con ADHD ha difficoltà a stare dentro i suoi spazi, ha difficoltà a rispettare le regole del gioco, ha difficoltà a rispettare le regole conversazionali ecc….

Quando parliamo di ADHD parliamo quindi di un modo in cui il cervello è strutturato, ma soprattutto di come il cervello funziona che viene definito “divergente” e che coinvolge più modalità:

  • di apprendimento;
  • di autoregolazione;
  • di memorizzazione delle informazioni;
  • di percezione degli stimoli e del mondo in generale;
  • di sperimentazione e manifestazione delle proprie emozioni;
  • di relazionarsi con se stessi e con gli altri.

Spesso i bambini con ADHD presentano altri disturbi che rendono difficoltoso il loro percorso scolastico. Tra i disturbi che si associano all’ADHD abbiamo i disturbi dell’apprendimento (dislessia, disgrafia e discalculia). In alcuni casi siamo di fronte a una vera e propria comorbilità, in altri di tratta solo del disturbo ADHD che causa delle manifestazioni simili ai bambini che hanno disturbi dell’apprendimento.

Oltre ai disturbi dell’apprendimento spesso si associano all’ADHD anche i disturbi del comportamento come ad esempio il disturbo oppositivo-provocatorio o il disturbo della condotta.

Questo è un evento abbastanza frequente soprattutto quando nel corso dei primi anni di scuola il disturbo da ADHD non è stato diagnosticato oppure non è stato gestito in maniera efficace da un punto di vista educativo.

Anche disturbi di ansia o disturbi dell’umore possono agire in comorbilità all’ADHD. È chiaro che in tutte queste situazioni l’intervento educativo divente molto più complesso. Diventà molto più complicato anche un intervento riabilitativo e terapeutico. Questo è uno dei motivi per i quali non dovremmo mai attendere troppo ad aiutare ad arrivare ad una diagnosi per poi intervenire in maniera adeguata.

Anzi, un intervento educativo precoce spesso aiuta i bambini con ADHD ad evitare l’insorgenza di altri disturbi che rendono poi molto più complesso il quadro.

Ma soprattutto individuare e trattare precocemente l’ADHD permette di evitare che negli anni a venire il bambino diventato adolescente posso adottare comportamenti pericolosi come l’uso di sostanze stupefacenti, le sfide in motocicletta, le corse in auto, il gioco d’azzardo ecc ecc.

Insomma curarli e curarli in tempo diventa fondamentale.

Normalmente un segnale a cui i genitori e gli insegnanti devono fare riferimento è se il bambino evidenzia i sintomi ADHD non solo a casa, ma anche negli altri contesti sociali come per esempio la scuola o nei contesti sportivi o di relazione con amici. Se i sintomi emergono solo tra le mura domestiche allora i genitori devono interrogarsi se le loro modalità educative sono adeguate.

Per quanto riguarda le modalità di cura a volte il trattamento farmacologico diventa fondamentale.

Generalmente, seguendo le linee guida inglesi ed europee, sotto l’età scolastica cioè sotto i sei anni non si da mai il farmaco, ma si fa un intervento di “parent training” e di “teacher training”, cioè si aiutano i genitori e gli insegnanti a gestire il comportamento del bambino. Con l’ingresso a scuola, se è una forma lieve, cioè in qualche modo contenibile non si da il farmaco e si inizia con il “parent training” e il “teacher training” e con una terapia cognitivo-comportamentale. Nelle forme più gravi dove si è di fronte a un forte isolamento, a una forte difficoltà di apprendimento e quindi le relazioni sono fortemente compromesse si prescrive anche il farmaco. In Italia il trattamento è sempre combinato: farmaco e psicoterapia.

Per quanto riguarda l’utilizzo del Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal® uno studio che ha dato risultati molto buoni è stato presentato alla conferenza mondiale Zengar tenuta a Montreal nel 2018 da Gulnora Hundley, PhD, LMHC, LMFT & Caitlyn Bennett, PhD, LMHC con la collaborazione dell’ Università della Florida.

I risultati del suddetto studio hanno evidenziato che le sessioni di Neurofeedback Dinamico hanno:

  • migliorato notevolmente le capacità attentive dei bambini;
  • diminuito l’iperattività;
  • diminuti i liveli di ansia e depressione quando presenti;
  • migliorato la sensazione di autoefficacia nell’eseguie i compiti.

Ps: nessun miglioramento è stato per ora osservato nel mitigare l’impulsività.

Per scaricare i risultati e tutte le slide della ricerca in oggetto clicca quhttps://neuroptimal.com/research/#1468952261836-538bbafc-55edi.

Posso affermare che anche nel mio studio ho potuto osservare questi effetti positivi, soprattutto se accettano di fare le sessioni anche almeno uno dei genitori. Dalle mie osservazioni e dialoghi ho sempre constatato che spesso i genitori soffrono di problemi di ansia o altro tipo e che il training con Neuroptimal® permette loro di ottenere un’autoregolazione del loro Sistema Nervoso Centrale che poi ha effetti benefici nelle dinamiche familiari.

Neurofeedback Dinamico per mitigare lo stress e il burnout

Perchè ci stressiamo? Perchè nella società contemporanea spesso confondiamo l’essere con il fare e quindi ci è stato insegnato che noi siamo in virtù di quello che facciamo. Quindi il lavoro è diventato fondamentalmente la nostra definizione. Ci definisce in quanto esseri umani e da un’idea della nostra identità. Molti confondono chi siamo con il lavoro che facciamo. In realtà il lavoro è una fonte di sostentamento materiale, ma è un ambito in cui noi possiamo realizzarci e la necessità di trovare un lavoro che ci corrisponda sta crescendo con il passare delle generazioni.

Lo stress da lavoro è sempre più presente nella nostra quotidianità e spesso può capitare che, alcuni sintomi all’inizio sottovalutati, alla lunga possano diventare dei fattori di stress cronicizzati. È un’insieme di fattori individuali ma anche della stessa organizzazione aziendale che possono portare la persona a sperimentare un “distress” cronico che si manifesta con una sintomatologia a livello fisico, psico-emozionale, comportamentale, addirittura presentando dei “marker” rilevabile attraverso gli esami del sangue, come ad esempio la prolattina o il cortisolo che è l’ormone dello stress. Spesso questo accade quando il lavoratore non si sente in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative del loro datore di lavoro.

I sintomi più comuni comprendono la tachicardia, una stanchezza diffusa, una rigidità muscolare, improvvise sudorazioni, cefalee muscolo-tensive, emicranee; tutto questo accompagnato da sintomi cognitivi come una scarsa concentrazione, difficoltà a memorizzare nuove informazioni, un’irritabilità e un nervosismo diffuso.

Anche a livello comportamentale accadono dei cambiamenti come ad esempio l’aumento di sigarette nei fumatori oppure un aumentato consumo di alcool che in qualche modo fanno da compensatori, da calmieranti. Alcuni tendono a isolarsi o a manifestare non proprio degli attacchi bulimici, ma una fame nervosa che li fa mangiare più del dovuto. In altre persone potremmo trovare dell’impulsività che potrebbe avere come conseguenza errori lavorativi anche gravi.

Prima che questi sintomi possano raggiungere livelli elevati si può lavorare su sé stessi, cercando di avere più momenti di svago, di avere un’alimentazione corretta, cercare di coltivare relazioni appaganti soprattutto al di fuori dell’ambiente lavorativo, concedersi dei piccoli divertimenti disseminati durante la settimana.

Innanzitutto, però, bisognerebbe scegliere un lavoro che rispecchia le nostre attitudini: ognuno di noi ha le proprie ambizioni e aspirazioni. Chiaramente dovremmo fare spesso dei compromessi. La maggior parte delle persone che vedo nel mio studio, però, non sono contente, sono frustrate  di quello che fanno. Anche se guadagnano molto denaro, perchè l’essere umano ha bisogno di realizzare i propri sogni, le proprie ambizioni e le proprie attitudini.

Diverso è il discorso per quanto riguarda il Burnout. Sebbene non sia ancora classificabile come malattia dall’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), la Sindrome di “Burnout” è un fenomeno che influenza negativamente lo stato di salute di coloro i quali esercitano professioni di sostegno e di aiuto in qualsiasi campo, da quello socio-sanitario fino alla sicurezza.

Oggi però il fenomeno “burnout” si può riscontrare in qualsiasi organizzazione o azienda soprattutto in quei lavoratori che sono a contatto con il pubblico, sia liberi professionisti che dipendenti, e in molti casi si estende anche alla vita privata e si manifesta diversamente da persona a persona.

La sindrome di burnout è un insieme di sintomi particolari che sono stati identificati negli studi psicologici effettuati negli ultimi quarant’anni che portano sostanzialmente a una “disaffezione” da parte delle persone, una sorta di esaurimento in cui l’individuo si sente svuotato di energia emotiva. Pur avendo delle cause che si collocano esternamente all’individuo, le persone più a rischio sono i migliori, quelli più innamorati del proprio lavoro; sono quelli che si dedicano con maggior forza. Perchè? Perchè quando investi molto emotivamente su qualcosa è ovvio che rischi di più quando senti che questo qualcosa ti tradisce, senti che ti viene meno. Quanto più alta è l’asticella quanto è più facile farsi male se si cade a terra.

In origine, quando il termine fu inventato negli anni ’70, i lavoratori maggiormente a rischio erano i grandi manager: persone che si sentivano molto identificate con la propria azienda e laddove non riuscivano ad ottenere i risultati si sentivano talmente idenficati che percepivano essi stessi il fallimento. Quando poi il concetto viene poi preso in mano dalla celebre psicologa Cristina Maslach, lei ha notato che le persone colpite da burnout erano persone fragili, persone deboli, persone con bassa autostima e allora ci si chiede “dov’è il problema?”. Il problema non è tanto essere forti o deboli di carattere, ma bensì quando la soddisfazione di quello che si fa viene percepita in modo “mediato”, cioè attraverso qualcun’altro e per questo colpisce prevalentemente, almeno questo dice la letteratura classica, i professionisti d’aiuto perchè sentono la gratifica attraverso il riconoscimento altrui.

Parliamo quindi di medici, infermieri, operatori socio-sanitari ecc ecc.che hannno bisogno di vedere la qualità del lavoro svolto attraverso il riconoscimento altrui. Sappiamo bene, però, che la qualità del lavoro di un professionista a volte non può riconoscersi direttamente nella percezione da parte della persona aiutata.

Si parla molto spesso di empatia: quanto più tu sei coinvolto emotivamente con l’altra persona, quanto più tu rischi di uscirne a pezzi emotivamente.

Anche nell’ambiente domestico troviamo il “burnout”.. Poichè si parla di “lavoro domestico”, quando tale lavoro non viene riconosciuto dagli altri componenti della famiglia si arriva al “disammoramento”.

Il burnout si caratterizza per delle sindromi multiformi: paraddossalmente all’inizio ti impegni maggiormente e con più energia: questa sorta di “sovraimpegno” è la premessa che può portarti al burnout. Dovrebbe essere una fase che rappresenta una sorta di campanello d’allarme che dovrebbe portarti ad essere più realistico altrimenti corri un rischio.

Poi c’è invece una seconda fase che paraddossalmente è quella della riduzione dell’impegno. Dopo che la curva dell’impegno è salita come oltresoglia essa poi tende a scendere e va troppo sottosoglia. Quindi perdi voglia di fare, tendi a distaccarti dalle persone, dai colleghi e ti allontanti. È una fase di allontamento.

Poi c’è la terza fase che può avere due caratteristiche distinte: o l’aggressività o la fase depressiva. Il soggetto in fase tre di burnout può essere scambiato per un depresso o per una persona aggressiva, ma non è ne l’uno ne l’altro e non deve essere trattato come se fosse veramente depresso o aggressivo.

La fase successiva, la fase quattro, è addirittura una fase di decadimento cognitivo, decadimento dell’attenzione. È una fase in cui oggettivamente ti sembra di non ricordare le cose, ti sembra di perderti le parole. Le persone hanno paura di invecchiare. Ma l’invecchiamento non c’entra niente. È una fase in cui il tuo cervello sta andando un po’ in stand-by e ti sta dando dei segnali che se ancora una volta trascurati, possono portarti a  situazioni difficili per esempio sviluppare reazioni psicosomatiche. Puoi arrivare a un distacco importante che in alcuni casi, quelli più gravi, può addirittura portare a tentativi di suicidio.

Le cause del burnout possono essere principalmente di tre tipi:

  • condizioni interiori delle persone più dedite al loro lavoro;
  • condizini esteriori causate dalle aziende che non valorizzano le persone;
  • condizioni interiori ed esteriori che si sommano tra loro.

Perchè può essere utile effettuare sessioni di Neurofeedback Dinamico (Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal®) su persone che hanno problemi di stress da lavoro correlato oppure di burnout? Perchè il Sistema Nervoso Centrale è normalmente in grado di gestire una grande varietà di stimoli esterni senza che essi creino danno. In alcuni periodi della vita di un essere umano questi stimoli possono essere troppo intensi o di lunga durata, oppure possono sommarsi tra loro, superando le capacità di adattamento del cervello. Queste situazioni, presenti in caso di stress o di burnout nei luoghi di lavoro, possono provocare una disorganizzazione del Sistema Nervoso Centrale e causare disagi sia psicologici che fisici. Ecco che il training con Neuroptimal® informa in tempo reale il cervello sul suo proprio funzionamento aiutandolo a riconoscere gli squilibri che si sono creati nel tempo. Questo “allenamento” permette al cervello di riorganizzarsi e massimizzare la sua latente capacità di autoregolazione generando benefici dal punto di fista cognitivo, emotivo e fisiologico.

Uno studio molto interessante a riguardo è stato presentato dalla dottoressa Nikki Sopchak, istruttrice e rappresentante Zengar, alla conferenza mondiale Neuroptimal® “Trasforming Lives” nel 2018 a Montreal (Canada). I risultati di questa ricerca hanno evidenziato che il gruppo di lavoratori che segnalavano punteggi di stress o di burnout sopra la media e che sono stati sottoposti al training con Neuroptimal® sono nettamente migliorati rispetto al gruppo “placebo”.

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