Il Counseling per sostenere il Caregiver

Il termine “caregiver” deriva dall’unione di due parole inglesi: “care” che significa “cura“e “giver” che “colui che dà“.

Il caregiver è quindi colui che dà cura, che accudisce e che dà assistenza ad un malato o ad una persona che ha perso totalmente o parzialmente la sua autonomia nel vivere quotidiano. Può essere un familiare o un professionista: nel primo caso lo fa volontariamente e gratuitamente per scelta o necessità.

Il caregiver, quindi, si occupa di soddisfare i bisogni primari della persona che assiste come per esempio occuparsi della sua igiene personale, della vestizione, della preparazione dei pasti, della somministrazione delle medicine ecc. Inoltre può interfacciarsi con le strutture sanitarie o dover accompagnare la persona a fare visite, controlli in ospedale o semplicemente a comprare dei vestiti o altre necessità.

In altre parole la persona che viene aiutata non è, nella maggior parte dei casi, in grado di usicre da sola, occuparsi delle faccende domestiche, curare sè stessa e questi sono i compiti che il caregiver è chiamato a fare.

Da fonti istat del 2015 si stima che i caregiver in Italia siano 7.300.000 e si prevede che possano negli anni continuare ad aumentare visto che il nostro paese è sempre più abitato da persone anziane.

Il caregiver è una figura di assoluta importanza e lo sarà sempre di più negli anni a venire; nella maggior parte dei casi  si tratta di donne (35%) con età media di circa 50 anni mentre per quanto riguarda gli uomoni si tratta di circa un 30%. Nel rimanente 35% dei casi si tratta di famiglie che, non potendo occuparsi del familiare, hanno deciso di rivolgersi ad una Rsa o ad una struttura specializzata.

La persona che viene aiutata invece è rappresentata per il 20% da un figlio/a,  per il 14% dal partner e per il 66% da un genitore.

Attraverso questo articolo voglio porre l’attenzione sulle problematiche e sulle fatiche che il caregiver è chiamato ad affrontare e di come il counseling può supportarlo in maniera efficace.
Le problematiche che incontra “colui che dà cura” sono rappresentate da tre dimensioni:

  1. a) la dimensione personale (esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione

personale);

  1. b) la dimensione relazionale (rischio di isolamento, diminuzione socialità);
  2. c) la dimensione spirituale (difficoltà nel trovare un senso esistenziale, umano e spirituale).

Chi riveste questo ruolo è spesso gravato da un carico di fatiche che aumenta col passare del tempo in quanto il malato con l’avanzare dell’età sarà sempre meno autosufficiente. Si inizia con l’accorgersi che il proprio caro necessita di un accompagnamento in quelle attività che fanno parte della vita quotidiana come il fare la spesa, piuttosto che pagare le bollette, andare a fare una passeggiata. Ci si accorge che magari la persona inizia a perdere la memoria e ha la necessità di essere aiutata; man mano che la malattia avanza c’è la necessità di accompagnare la persona nel soddisfacimento dei bisogni primari (mangiare, bere, muoversi…).

I carichi di lavoro del caregiver vengono normalmente distinti in quattro categorie:

  • il carico oggettivo, cioè il tempo che il caregiver deve dedicare al malato e che necessariamente sottrae a sé stesso con tutto quello che ne consegue;
  • il carico fisico che è la fatica che fa chi si dedica al proprio caro prendedosene cura. E non

si parla solo di fatica fisica, ma anche psicologica. Basti pensare a chi si prende cura di un

malato di Alzheimer che deve necessariamente occuparsi di lui 24 ore su 24;

  • il carico sociale che è collegato al fatto che il caregiver deve rinunciare al tempo che prima

utilizzava per vedersi con gli amici, fare sport o altre attività, lavorare. Col passare del tempo si può sentire sempre più solo e isolato;

  • il carico emotivo che inizia immediatamente in quanto si assiste al cambiamento del proprio caro e non si conoscono le dinamiche che ne conseguono. Non si conosce la malattia che può dare molto fastidio e disturbare. I caregiver spesso lamentano meno energia, stanchezza

eccessiva, incapacità di recuperare le forze col normale riposo. I limiti fisici o emotivi vengono oltrepassati.

Sommando tutti questi carichi la situazione diventa ovviamente difficile da sopportare.

In base a tutto quello che ho fin qui descritto possiamo identificare i seguenti fattori critici nel “caregiver familiare”:

  • stress prolungato dovuto alle cure fisiche ed alle modificazioni dei ruoli precedenti alla malattia;
  • incessante supporto emotivo fornito al partner malato;
  • diminuzione della qualità della vita;
  • il vissuto emotivo dell'”essere in trappola”, come se ogni spazio personale fosse invaso;
  • sentimento di isolamento sociale;
  • gestione dei trasporti del malato, commissioni, compiti domestici.

Ecco che l’intervento di un counselor professionista può essere veramente utile per supportare il caregiver soprattutto nella gestione di queste dinamiche:

  • non accettazione della malattia;
  • mancanza di spazi e tempo per sé;
  • vissuti emotivi contrastanti;
  • vivere relazioni conflittuali con la famiglia;
  • avere difficoltà comunicative co la famiglia o con gli operatori dell’assistenza.

Inizialmente, di fronte ad una malattia di un proprio caro, ci possono essere delle reazioni iniziali di confusione, incredulità e negazione. In questa fase è importante aiutare la persona a prendere consapevolezza della malattia gestendo le varie reazioni emotive che possono scaturire da tale situazione. Successivamente si dovrà aiutare il cliente ad accettare la nuova situazione e il nuovo ruolo che egli dovrà eseguire, cioè quello del caregiver; piano piano sarà in grado di affrontare le proprie sofferenze e superarle.

Una caratteristica che accomuna molti caregiver è la “difficoltà di delega”, cioè la difficoltà di farsi aiutare da qualcun altro alleggerendo in questo modo  il suo lavoro nell’accudimento del proprio caro.

Un altro problema da gestire è la mancanza di spazi e di tempo per sé. Il caregiver fatica ad occuparsi di sé e questo può essere molto dannoso per la relazione con il malato. Un caregiver stanco e frustrato sarà sicuramente meno calmo, meno empatico con la potenzialità di diventare inefficace. Compito del counselor sarà quello di aiutare il cliente a immaginare nuovi scenari in cui si prenderà cura di sé, fissare degli obiettivi e poi passare all’azione.

Anche i sentimenti e il carico emotivo del caregiver non sono da sottovalutare. Spesso delusione e fallimento possono provocare rabbia, irritazione e nervosismo: in un primo momento egli si arrabbia con sé stesso, si percepisce impotente e incapace di risolvere i problemi. In un secondo momento il caregiver si può arrabbiare con il malato perchè è caduto in questa situazione oppure perchè si comporta in questo modo. Il counselor dovrà informare il cliente che è la malattia che genera questi comportamenti, e non il malato a non volersi impegnare a comportarsi diversamente.

Il counselor può essere di notevole aiuto anche nel gestire la comunicazione del suo cliente con gli altri membri della sua famiglia, ma anche con gli operatori del settore come medici, assistenti sociali, infermieri ecc ecc.

Se ti trovi in una situazione in cui devi gestire un tuo familiare che ha bisogno della tua cura e assistenza quotidiana non esitare a farti aiutare. Se stai bene e ti prendi cura di te stesso sarai in grado di aiutare il tuo caro più efficacemente: aiutare presuppone volersi bene. Chiamami ed insieme troveremo tutte le soluzioni e strategie necessarie per alleggerire il peso dell’accudimento.

Il Cambiamento

Il cambiamento è una costante della realtà a cui non è possibile sottrarsi. È sufficiente osservare la natura o le persone per rendersi conto di tutte le continue trasformazioni a cui sono soggette. La consapevolezza del cambiamento è più evidente quando noi ne facciamo esperienza diretta. Ma in definitiva come possiamo definire il cambiamento o meglio cosa può costituire:

  • una necessità: la crisalide che diventa farfalla per nor morire;
  • un adattamento: ad esempio quando due genitori cambiano le loro priorità individuali e di coppia per amore dei figli;
  • un’opportunità; quando una persona vuole rimettersi in gioco perchè stanca della situazione che sta vivendo.

Il cambiamento può essere visto anche come “il caos creativo della vita” oppure “la consapevolezza del rinnovarsi del tempo e della vita”. Lo viviamo tutti, nelle forme più svariate, nella soggettività delle percezioni, attraverso un’ampia gamma di sfumature emotive, elaborando profonde riflessioni o rimanendo sulla superficie del significato con le parole di tutti i giorni.

La ruota della nostra storia ha sempre girato intorno a due assi incrociati: la paura del nuovo ed il coraggio di cambiare.

Il cambiamento può mettere in crisi una persona. La parola crisi viene dal greco “krisis” e significa “trasformazione”, ma anche “separazione, scelta, giudizio”. Quando ad esempio una persona scompare viviamo questo cambiamento come una separazione che ci genera un dolore fortissimo; anche ogni decisione che prendiamo comporta la scelta di una direzione da prendere che ci costringe a cambiare schemi, comportamenti, riferimenti conosciuti per svilupparne altri del tutto nuovi: “tutto cambia, nulla è per sempre”.

Il cambiamento può essere scelto o subito, imposto o promosso, aspettato oppure inaspettato….

A volte rappresenta una scelta per cambiare qualcosa che non ci piace o non ci soddisfa: vogliamo dimagrire e quindi decidiamo di “metterci in dieta”, non siamo soddisfatti a livello professionale e cerchiamo un nuovo lavoro ecc ecc..

Possiamo, in sintesi, indicare il cambiamento come:

  • la natura stessa della vita, la sua caratteristica più distintiva;
  • un evento oppure una situazione che ci colpisce come un qualcosa di nuovo o di diverso che, dal nostro punto di vista, prima non esisteva o non era conosciuto;
  • un comportamento intenzionale od una strategia che mettiamo in atto per raggiungere uno “stato desiderato” a livello personale, professionale o esistenziale;
  • una dimensione sociologica che riguarda “il progresso” delle comunità umane e quindi degli individui che ne fanno parte.

Ognuno di noi è chiamato ad essere il timoniere che governa il veliero della propria vita, in un oceano di cambiamenti e trasformazioni. Per governare i cambiamenti in modo soddisfacente, così come del resto per vivere, sono necessarie le passioni, come ad esempio quelle che viviamo nella vita personale, affettiva e lavorativa: sono i venti che ci condurranno nel tranquillo porto della saggezza. Occorre quindi avere chiara la “rotta da seguire” : uno stile di vita intelligente, essere pronti e bravi a recuperare le “derive” che metaforicamente rappresentano i momenti di crisi, evitando in questo modo pericolosi “naufragi” come ad esempio malesseri o patologie o ritrovarsi “in secca” in fasi di stallo prolungato.

Sviluppare la capacità di governare i cambiamenti significa, da un lato,  saper riconoscere le cosiddette “invarianze”, dall’altro, bisogna saper riconoscere cosa è soggetto a cambiamento e viverlo in maniera attiva e consapevole: bisogna nuotare nella corrente della vita, cercando a volte anche degli appigli per riposarsi e non farsi trascinare o sballottare dai flutti.

L’immagine di un mondo che fugge risucchiando vorticosamente dietro di sè le vite delle persone e delle nazioni, di tutto il mondo, rappresenta una tipica icona dell’era contemporanea. Nuovi rischi e nuove incertezze si alternano o si sovrappongono a nuove opportunità e nuove scoperte, nessuno può “far finta di nulla” o ritenersi escluso dalla globalizzazione.

È necessario configurare un sistema di ancoraggio interno per essere pienamente “centrati in sé stessi durante la gestione di momenti critici e cambiamenti potenzialmente destabilizzanti, come ad esempio un mancato raggiungimento di un obiettivo personale, un fallimento in un rapporto affettivo o la perdita di un lavoro. Essere centrati in sé stessi in termini di autostima, calma e lucidità di pensiero. Le persone che nel tempo diventano abili nell’applicare la tecnica dell’ancoraggio in sé stessi, nelle situazioni di criticità, sviluppano tutto il loro potenziale nell’affrontare e risolvere problemi, nel rafforzare l’autostima e nel rendere il proprio equilibrio interiore refrattario alla negatività emanata da certe persone o insita in alcune circostanze indesiderate. Senza la capacità di ancorarsi in sé stesse, le persone si ritrovano in balia degli eventi o “vanno avanti” per inerzia.

Le persone equilibrate, nel corso della loro vita assecondano o guidano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e di miglioramento, assumendosi in prima persona la “responsabilità” del governo degli eventi.

Tali significati sono alla base, ad esempio, del concetto anglosassone di “Empowerment” che possiamo tradurre con le parole “Conferire potere, dare potere”….  Le persone “empowered” sanno come comportarsi, come agire, come intervenire. Chi riesce a governare in modo intelligente le evoluzioni personali e lo scenario nel quale si trova a vivere, senza ritrovarsi in balia delle circostanze, ha sicuramente una marcia in più ed in qualche caso anche la trazione integrale rispetto a quelle persone che passano la vita a “grattare” con la vana speranza di vincere qualcosa.

Ognuno di noi affronta bene o male le sue piccole o grandi difficoltà della vita, ma quello che oggi possiamo osservare è il fatto che sempre più persone reagiscono patologicamente ai cambiamenti “imposti” della vita.

Infatti possiamo identificare “persone equilibrate“, cioè individui che assecondano e governano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e “persone patologiche” che reagiscono, apputno, in maniera patologica ai cambiamenti.

Per la maggior parte delle persone, nella realtà, non è mai facile affrontare un cambiamento, soprattutto quando è imposto o imprevisto. Il “segreto” sta comunque nel viverlo nel modo più costruttivo e impositivo possibile, traendo spunti per il futuro.

La strategia consigliata è di lavorare su sé stessi attraverso il porsi alcune domande riflessive e stabilire piani d’azione utilizzando le risposte che ognuno si è dato o ha ricevuto come indicazione da qualcun altro:

  • “Cosa sta cercando di accadere?”
  • “Se nulla avviene per caso, questo evento o “coincidenza non casuale” cosa può suggerire alla mia vita?”
  • “Quali vantaggi posso trarre da questa nuova situazione?”
  • “Con chi posso confrontarmi per ragionare costruttivamente sul cambiamento in atto”?
  • “Quali altri significati di vita posso attribuire a questo cambiamento?”
  • “Perchè non considerare la situazione come un’occasione per mettere alla prova le mie capacità?

L’alternativa a questo fondamentale atteggiamento introspettivo/progettuale è subire passivamente il cambiamento e quindi rimanere travolti o paralizzati dagli eventi.

Nello stesso tempo, non bisogna rimanere vittime dell’arroganza che nasce dall’aver affrontato con successo un cambiamento, nè cadere nella presunzione di ritenersi immuni da “difetti”.

 

Il counseling e la gestione dei cambiamenti

Il counseling è un percorso molto utile per aiutare le persone a gestire i cambiamenti. Attraverso i colloqui di counseling ti posso aiutare ad affrontare i vari cambiamenti della vita. Come ho già accennato precedentemente il cambiamento può essere subito ed inaspettato come ad esempio un licenziamento oppure essere lasciati dal proprio partner. Entrambi gli esempi che ho citato possono essere fonti di stress, sofferenza, preoccupazioni che possono creare un forte disagio.
Il mio compito è quello di ascoltarti con profonda empatia, aiutarti ad esprimere le tue emozioni soprattutto nella prima fase. Successivamente cercherò insieme a te di identificare, riattivare ed utilizzare le tue risorse per migliorare le tue capacità di adattamento. La capacità di adattarsi alle situazioni è una caratteristica di tutti gli esseri viventi: il mio lavoro ti aiuterà a trovare le migliori strategie mentali e comportamentali per fronteggiare in modo adeguato situazioni stressanti come possono essere quelle conseguenti a un cambiamento.

A volte il cambiamento può essere una scelta, come ad esempio migliorare il proprio stile di vita smettendo di fumare o decidendo di perdere peso. In questo secondo caso sarà per me importante identificare la qualità della tua motivazione a cambiare: si stratta di velleità o di volontà?

La velleità è la fase iniziale del processo di cambiamento in cui si ha preso consapevolezza di un problema ma non si ha ancora deciso di intraprendere azioni per risolverlo (vorrei, mi piacerebbe…). La volontà rappresenta la fase del processo io cui si è decisi a cambiare nell’immediato (voglio cambiare…). Evidentemente nella “volontà” c’è una motivazione superiore rispetto alla “velleità”. Insieme cercheremo di capire quali possono essere le resistenze e le riluttanze al cambiamento per poi trovare soluzioni e strategie per superarle.

La Solitudine

La solitudine può essere considerata una sensazione naturale che arriva quando il rapporto con l’altro non soddisfa o non rispecchia le nostre esigenze. È anche un elemento antropologico costitutivo dell’essere umano: l’uomo nasce solo e muore solo.

La motivazione che spinge molte persone ad iniziare un percorso di counseling è molto spesso la solitudine; c’è infatti la tendenza all’incapacità di sopportarla e quindi ad  attuare vari tentativi per sfuggirne attraverso comportamenti indadeguati, a volte distruttivi come per esempio: buttarsi sul cibo, essere iperattivi, cercare scappatoie su internet, assumere alcool oppure droghe, ricercare compagnia in modo morboso.

La solitudine crea sofferenza, ma se si riesce a “sfruttarla in modo positivo” ci porta a prendere coscienza del problema, adattare strategie per farvi fronte, comportarci in modo diverso, ma soprattutto a:

  • gestire meglio le nostre emozioni;
  • costruire relazioni più sane.

In poche parole ci aiuta a evolvere.

L’essere umano è fondamentalmente un “essere sociale” e quindi è portato e predisposto alla relazione. Ma la relazione implica anche la solitudine: chi sa stare da solo sa anche relazionarsi all’altro in modo sano: se io non temo di scendere nella mia propria interiorità posso affrontare l’incontro con l’altro. È necessario quindi imparare a sentirsi bene in compagnia di noi stessi in quanto, se ciò non avviene:

  • ci si avvicina agli altri in modo inappropriato;
  • si usano gli altri per soddisfare i propri bisogni;
  • non è uno “stare insieme creativo”.

La solitudine è anche un profondo incontro con sé stessi, ci pone davanti ai quesiti fondamentali dell’esistenza:

  • Qual è il senso della vita?
  • Chi siamo?
  • Cosa pensiamo e vogliamo fare di noi stessi?
  • Quale posto occupiamo nel mondo?
  • Che rapporti abbiamo con gli altri?

La risposta a questi quesiti favorisce la scoperta di sé e l’accettazione dei propri limiti.

In ogni caso la solitudine è un’esperienza condivisa da tutti di cui facciamo esperienza già al momento della nascita quando veniamo separati da nostra madre perdendo uno stato particolare in cui eravamo.

È inscritta nella logica dell’esistenza umana e compare in tutte le stagioni della vita, possiamo infatti osservare la solitudine nel bambino, nell’adolescente, nell’adulto e nell’anziano.

La solitudine che sperimenta il bambino è spesso una solitudine emotiva che deriva dal mancato soddisfacimento dei bisogni primari: essere contenuto, sostenuto e ascoltato. Nell’adolescente è causata spesso dall’uso maniacale di internet e della tecnologia che crea un allontamento dei ragazzi dalla società. Negli adulti arriva nei momenti di passaggio verso la mezza età o nell’età anziana, ma in modo più acuto si può sperimentare quando ad esempio i figli se ne vanno, si resta vedovi, si divorzia o si va in pensione. La solitudine degli anziani è caratterizzata da elementi oggettivi come la perdita di persone care, malattie o ricoveri in Rsa.

La solitudine può essere vissuta in modo positivo o negativo.

Il primo caso (solitudine positiva) si verifica quando riusciamo a essere o stare soli senza sentirci isolati o vuoti e rappresenta un modo costruttivo di essere impegnati con sé stessi. È una situazione desiderabile in cui ci offriamo una meravigliosa e sufficiente compagnia, in cui possiamo pregare, attuare una ricerca interiore, contemplare la natura, essere creativi. Vissuta in questo modo la solitudine può essere vista come una benedizione che ci dona pace, ricchezza interiore, esperienza mistica e gioia.

Nel secondo caso (solitudine negativa) rappresenta una stato emotivo in cui la persona fa esperienza di un sentimento più o meno intenso di:

  • isolamento
  • vuoto.

Le persone si sentono tagliate fuori, disconnesse e alienate dagli altri. Vi è una grossa difficoltà nell’avere un contatto con gli altri. La solitudine negativa è principalmente causata da:

  • esperienze negative relative alla prima volta in cui siamo stati lasciati soli da bambini;
  • attaccamento insicuro;
  • bassa autostima;
  • legami familiari.

La solitudine può essere imposta o scelta. Se imposta è facile che possiamo percepire sofferenza, impotenza, ingiustizia, incomprensione. Se scelta possiamo sperimentare conforto, energia, forza, pace interiore: chiaramente è meglio scegliere i propri momenti di solitudine che subirli.

Ma fondamentalmente da dove nasce il senso di solitudine? E perchè la solitudine turba così tanto?

Le risposte alla prima domanda sono principalmente tre:

  1. Una paura ancestrale. La solitudine rimanda al regno animale nel quale vivere da soli è pericoloso per la sopravvivenza. Da soli si è più vulnerabili.
  2. Un bisogno di interazione sociale. L’essere umano è un animale sociale per natura che ha bisogno di interagire con gli altri per evolversi e costruirsi.
  3. Una coscienza di essere. Gli essere umani sanno di essere mortali e quindi hanno bisogno di dare un senso alla vita.

Le risposte alla seconda domanda sono molto più complesse.

La solitudine fa riaffiorare ricordi dolorosi e situazioni tristi che abbiamo vissuto da bambini, ma siamo sempre stati impegnati in attività permanenti che non ci hanno per messo di imparare a gestirla e quindi da adulti la sfuggiamo in qualsiasi modo.

L’inattività è sempre stata combattuta e siamo sempre stati inseriti in programmi fitti di impegni. Le conseguenze di questi atteggiamenti hanno fatto si che:

  • non ci siamo abituati a capire ciò che si sente, si prova e vive dentro di sé;
  • i bambini non capiscono e non sanno dare un nome alle loro emozioni;
  • i bambini non sanno esprimere i loro bisogni e i loro stati d’animo.

Da adulti come facciamo a confrontarci con la solitudine se non l’abbiamo sperimentata prima?

Non è la solitudine a costituire un problema, ma la nostra tolleranza, la nostra sensibilità a questo tipo di situazione. Quindi cosa fare per gestire meglio la solitudine?

Come posso aiutarti attraverso i colloqui di counseling a farti carico della solitudine?
Ecco alcuni passaggi che posso applicare:

  • definire insieme a te e con precisione le condizioni o le situazioni che scatenano le emozioni negative per poter prevenire ed evitare situazioni troppo stressanti;
  • aiutarti a sviluppare una maggior consapevolezza di te stesso, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri;
  • migliorare le tue competenze sociali (social skills);
  • favorire l’azione, il sapersi organizzare, per non restare inattivo e passivo;
  • favorire l’accettazione di te stesso e aiutarti ad amarti così come sei;
  • favorire la fiducia in te stesso e sviluppare un senso di competenza e perseveranza.

Per prima cosa ti posso aiutare ad individuare la situazione problematica. Le persone che soffrono di solitudine percepiscono una forte angoscia e sono preda di pensieri automatici negativi non appena si ritrovano da sole. Per loro la solitudine significa abbandono, noia, vuoto, inutilità e disperazione. Ti aiuterò a prendere coscienza del tuo stato emotivo, ad individuare i pensieri automatici negativi e a criticarli. Oltre a trovare pensieri alternativi nuovi, più obiettivi e più giusti. Finchè la tolleranza alla solitudine resta intensa può essere utile accettare la situazione e organizzarti in modo differente per limitare tale circostanza.

Posso aiutarti ad usare la tua creatività per gestire al meglio questa situazione. Possiamo fissare degli obiettivi insieme, fare progetti alla tua portata come ad esempio organizzare il tempo libero e non farti più prendere alla sprovvista. Oppure costruire insieme una “carta della sopravvivenza” che possa essere utilizzata nei momenti in cui l’ansia e il panico generati dalla solitudine prendono il sopravvento.

Un punto su cui si può lavorare sono anche le emozioni che si provano nei momenti di solitudine. Rispetto alle emozioni sarà determinante  diventarne consapevoli, dare loro un nome, accettarle, integrarle, esprimerle e utilizzarle.

Come già detto in precedenza il counseling può esserti utile per migliorare le tue abilità sociali con l’obiettivo di ampliare il tuo contesto di relazioni. La solitudine insorge quando la rete sociale di una persona risulta carente dal punto di vista qualitativo o quantitativo, motivo per cui abbiamo tutto l’interesse a costruire rapporti interpersonali gratificanti.

Pertanto potremmo insieme redigere un piano d’azione con l’obiettivo di ottenere relazioni durature e gratificanti.

Se in questo periodo della tua vita il tuo problema principale è la solitudine non esitare a contattarmi: insieme riuciremo a trovare il modo di gestirla e di sfruttarla in modo positivo!!

Neurocounseling Dinamico

Neurocounseling Dinamico

Con il termine “Neurocounseling Dinamico” intendo la possibilità di integrare le neuroscienze, attraverso il Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal®, nella professione di counseling per aiutare i clienti a raggiungere meglio i loro obiettivi, contemporaneamente all’ottenimento di un benessere psicofisico ottimale che possa essere sostenibile nel tempo.

Il Neurocounseling Dinamico rappresenta la possibilità di utilizzare le due competenze che ho acquisito, quella di neurotrainer e quella di counselor, a vantaggio del cliente che può lavorare contemporaneamente su vari aspetti che si rafforzano in maniera reciproca. Da una parte il Neurofeedback Dinamico è utile per migliorare la plasticità cerebrale e ottenere benefici sul piano psicologico, fisico e cognitivo, dall’altra il counseling che rappresenta un processo relazionale che permette al cliente di aumentare il proprio livello di consapevolezza sulle proprie risorse e sui propri limiti, aiutandolo a pianificare strategie efficaci per raggiungere determinati obiettivRead More