Sono passati ormai sette anni da quando ho aperto la partita iva e ho iniziato questa splendida avventura come Neurotrainer NeuroptimalⓇ che utilizzo nel mio studio abbinandolo alla professione di Counselor. In tutto questo tempo ho avuto delle soddisfazioni enormi nell’aiutare tante persone a raggiungere i loro obiettivi in termine di benessere psicofisico e crescita personale, L’esperienza maturata in questo settore è stata notevole, soprattutto grazie alla preziosa collaborazione di psicologi e psicoterapeuti che hanno creduto in me e che mi hanno inviato i loro pazienti con lo scopo di ottenere maggior beneficio utilizzando la psicoterapia insieme al Neurofeedback Dinamico: un binomio che si è dimostrato essere vincente. Nonostante queste belle premesse, dentro di me avevo la sensazione che si potesse fare molto, molto di più avendo la possibilità di ottimizzare il training con più sessioni e coinvolgendo più persone, a beneficio quindi sia del singolo individuo che della collettività. Pur non esistendo un protocollo definito e univoco che stabilisca un numero di sessioni da fare e un ritmo da tenere, ho deciso di seguire la modalità tenuta e consigliata dal dott. Francesco Lanza che per primo ha importato in Italia il Neurofeedback Dinamico: far fare ai clienti un ciclo “primario” di 20 sessioni con un ritmo di 2 a settimana. Le persone che riuscivano a tenere questa “modalità” ottenevano dei buoni e a volte anche ottimi risultati… Alcuni però non potevano venire in studio due volte a settimana, sia per motivi pratici (tempo, distanza ecc.), che economici. Si optava quindi per 1 sessione a settimana, comunque, con buoni risultati anche se, ovviamente, per raggiungerli si doveva aspettare più tempo. Ecco che ad un certo punto mi sorge la domanda… Dal momento che non ci sono controindicazioni e che l’allenamento cerebrale può essere praticato anche tutti i giorni…. che benefici potrebbero ottenere le persone se facessero 3, 4 o anche più sessioni a settimana? E magari comodamente a casa propria senza dover investire troppo tempo e denaro per spostarsi nello studio del professionista? Con la possibilità anche di poter fare sessioni ai propri familiari o parenti… Io ero già a conoscenza che soprattutto in America, ma anche in Europa, esisteva la possibilità di noleggiare il sistema NeuroptimalⓇ, ma non ci avevo mai pensato in termini pratici e soprattutto di investire comprando altri sistemi per poi affittarli. Il Neurofeedback Dinamico (Dynamical NeurofeedbackⓇ) NeuroptimalⓇ non è un dispositivo medico bensì un “wellness device”, cioè un dispositivo del benessere e pertanto non è necessario avere titoli medici o sanitari per poterlo utilizzare. Può essere definito come una tecnica avanzata di allenamento cerebrale che si pone come obiettivo il miglioramento della plasticità del cervello. La conseguenza di questa “brain gym” è l’ottenimento di un benessere psicofisico generale utile a risolvere o quantomeno mitigare problemi di varia natura: psicologici, fisiologici, cognitivi ed emotivi. Da qualche anno ad oggi il sistema NeuroptimalⓇ, soprattutto da quando è uscita la versione 3.0 nel 2018, è diventato completamente automatizzato e di facile utilizzo per chiunque. Pertanto si sta diffondendo sempre di più in tutto il mondo una nuova modalità di utilizzo del Neurofeedback Dinamico: il noleggio! Avrai modo di allenare il tuo cervello comodamente a casa tua, quante volte vorrai! Stimolato da un mio cliente, a marzo del 2023 decisi di acquistare un secondo sistema da destinare appunto al noleggio… Ho detto dentro di me: “Perché non provare? … Beh… ad oggi sono felice possessore di ben 5 sistemi NeuroptimalⓇ. L’esperienza del noleggio, quindi, è stata e continua ad essere meravigliosa. I vantaggi sono enormi sia per il cliente, per i suoi familiari, ma anche per la mia attività. Per il cliente i vantaggi del noleggio si possono riassumere nelle righe sottostanti: FLESSIBILITÀ: possibilità di fare le sessioni quando si vuole e quante volte si vuole; COMODITÀ: non ci si deve spostare per andare in uno studio di un professionista, ma si può utilizzare NeuroptimalⓇ comodamente a casa o dove si vuole; RISPARMIO: il noleggio permette di risparmiare un’enorme quantità di tempo e di denaro. È un piacevole “effetto collaterale” dei primi due vantaggi elencati; INCLUSIVITÀ: le sessioni sono illimitate e chiunque può usufruirne (parenti, amici, colleghi…). Il costo del noleggio rimane invariato. MASSIMA EFFICACIA: più alleni il tuo cervello più benefici avrai. Il noleggio ti permette di fare anche una sessione al giorno massimizzando la resa del sistema. Non esitare a contattarmi per avere informazioni ed eventualmente un preventivo personalizzato del noleggio!!!!!! Marco Battaglia 3475756036 battamarco78@gmail.com
Il rachide cervicale è una “lordosi”, quindi ha una curva a concavità leggera posteriore ed è composta da sette vertebre. Sia da un punto di vista anatomico, che da un punto di vista funzionale possiamo dividerla in una parte alta composta dalle prime due vertebre e da una parte medio bassa che va dalle vertebre c3 a c7. Tutta questa struttura anatomica è caratterizzata da un importante apparato legamentoso che coinvolge sia il rachide cervicale superiore sia quello inferiore. Quali sono i principali disturbi che interessano il tratto cervicale? Ci sono una serie di cause, una serie di elementi che aumentano la tensione di muscoli del collo e che diventano troppo rigidi. La conseguenza di tutto ciò è che si inizia ad avere dei sintomi. Il termine cervicalgia indica un generico dolore al collo che si protrae per un periodo di tempo che può variare da alcune settimane fino ad anni. Si tratta di un disturbo estremamente diffuso, ma non per questo deve essere sottovalutato. È sempre meglio, in caso di dolore, parlarne al medico di base che può valutare la possibilità di richiedere alcune indagini come i raggi oppure la risonanza magnetica per avere un quadro più completo della situazione. I sintomi tipici della cervicalgia sono: dolore al collo e spalle, accompagnato anche da mal di testa; intorpedimento a braccia e mani; vertigini e nausea. Le cause del dolore possono essere: difetti nella postura; stress; scarsa forma fisica. I benefici del massaggio cervicale sono innumerevoli; si può cominciare dal rilassamento che già di per sé consente al nostro organismo di rigenerarsi, riequilibrando il sistema nervoso e ormonale. Tra gli altri benefici del massaggio ci sono: attenuazione di tensioni presenti sotto forma di contratture e spasmi muscolari; miglioramento della circolazione, dal momento che i movimenti compiuti durante il massaggio consentono di spingere il sangue in direzione del cuore. Praticamente si favorisce lo scambio a livello cellulare, del sangue contenente le tossine, con sangue nuovo ricco di elementi nutritivi. eliminazione delle cellule morte e assorbimento di elementi che nutrono la pelle, rendendola velluta e aiutandola a respirare.
Il massaggio è una delle forme d’arte più antiche. Non penso esista qualcosa di più semplice e intuitivo, praticabile da tutti con la giusta formazione, che possa dare benessere e rendere felici le persone e che viene giustamente considerata come la prima forma di cura e terapia presente al mondo. I benefici di un massaggio dipendono da vari fattori, soprattutto dalla tecnica di massaggio che viene utilizzata, dalla pressione esercitata e dalla durata del massaggio stesso. Esistono varie tipologie di massaggio dove ognuna ha lo scopo di raggiungere un obiettivo specifico. Possiamo elencare i più conosciuti: rilassante; antistress; linfodrenante; decontratturante; sportivo; anticellulite; ayurvedico. Ci sono comunque una serie di benefici che possono essere accumunati se non con tutte, con quasi tutte le tecniche di massaggio e che di seguito ho elencato. RILASSAMENTO Il rilassamento è sicuramente una delle prime parole che vengono in mente quando si parla di massaggio. È uno stato di calma e di tranquillità vigile caratterizzato dalla mancanza di attività fisiologica e dalla mancanza di ansia, sia a livello fisico che a livello mentale. Il massaggio è in grado di rilassare le persone in quanto diminuisce le tensioni muscolari, la tachicardia, l’irrequietezza, i pensieri che si affollano nella nostra mente, la paura ecc. DIMINUZIONE DELLO STRESS Lo stress può essere considerato a tutti gli effetti la grande epidemia dei tempi moderni. Viviamo dei ritmi di vita frenetici dettati dal sovrapporsi di vari impegni: familiari, professionali, relazionali. Abbiamo la continua necessità di tenere alte le nostre performance per non deludere nessuno ed essere sempre all’altezza di ogni situazione. Anche la tecnologia non ci aiuta a mitigare lo stress in quanto da una parte ci può facilitare la vita, dall’altra è una fonte continua di sollecitazioni che tengono in sovrastimolazione il nostro sistema nervoso. Al giorno d’oggi è ampiamente riconosciuto il legame mente-corpo. Purtroppo, quando gli stimoli stressogeni sono troppo intensi o prolungati nel tempo e superano le capacità di adattamento del sistema nervoso centrale iniziamo a soffrire di vari problemi sia psicologici che fisici. Ecco che il massaggio rilassante si pone come obiettivo principale quello di ridurre, con tecniche specifiche, gli alti livelli di stress accumulati nel corso della vita andando a stimolare le zone del corpo più soggette alla somatizzazione generando benefici anche dal punto di vista psicologico. ALLENTAMENTO TENSIONI E CONTRATTURE MUSCOLARI Probabilmente è l’effetto più evidente e più conosciuto da tutti: massaggiare i muscoli scioglie le tensioni, le contratture muscolari. La contrattura muscolare è una contrazione involontaria, insistente e dolorosa che coinvolge uno o più muscoli scheletrici. La contrattura muscolare è fondamentalmente un atto difensivo del nostro corpo quando facciamo qualcosa di eccessivo, cioè quando il tessuto muscolare viene sollecitato oltre il suo limite di sopportazione fisiologico. Molto utile è fare un bel massaggio decontratturante che si dimostra molto efficace nel ridurre le tensioni muscolari e nell’incrementare l’ossigenazione tissutale; inoltre si è notato un enorme beneficio nel migliorare la circolazione sanguigna e linfatica, nell’aiutare il corpo a eliminare tossine e sostanze di rifiuto. Da tutto ciò deriva una miglior mobilitazione articolare in quanto il muscolo, libero dalla contrattura, può tornare a muoversi. Nel massaggio decontratturante esistono diverse manualità che vengono utilizzate in funzione della parte da trattare e delle esigenze sia del cliente che dell’operatore. PELLE PIÙ SANA E LUMINOSA La pelle è la prima struttura che viene stimolata attraverso le manovre del massaggio. Essa è caratterizzata da una ricca innervazione derivata da un alto numero di recettori che possiede. L’azione meccanica esercitata sulla pelle produce una vasodilatazione e un’iperemia locale (aumentato del contenuto sanguineo in un distretto corporeo) che portano all’aumento della temperatura locale tramite meccanismi di tipo diretto o riflesso. Grazie alla vasodilatazione e all’iperemia si ottiene un’aumento del sangue nelle zone trattate, ma anche un aumento della funzione propria della pelle e del muscolo sottostante. Con un massaggio vengono eliminate le cellule morte, la traspirazione permette di eliminare liquidi, la pelle diventa più distesa ed elastica. FUNZIONAMENTO APPARATO CARDIOCIRCOLATORIO Uno degli effetti principali del massaggio avviene nell’apparato cardiocircolatorio. Parliamo di due tipi di circolazione: quella arteriosa e quella venosa. Nel primo caso viene stimolato il flusso a livello delle arterie che porta ad un arricchimento di ossigeno e sostanze nutritive e un miglioramento del metabolismo locale. Per quanto riguarda la circolazione venosa si ha un’accelerazione del flusso venoso e viene favorito il ritorno sanguineo con un beneficio in caso di disturbi nervosi periferici. Inoltre l’aumento del flusso ematico ha benefici anche per il cuore in quanto si rafforza come conseguenza della dilatazione delle arterie e della diminuzione della frequenza cardiaca. FUNZIONAMENTO CIRCOLAZIONE LINFATICA Il sistema linfatico permette alla linfa di fluire all’interno dei tessuti del nostro organismo: in questa maniera va a drenare ogni parte del nostro corpo per prevenire eventuali rigonfiamenti. Dopo ogni massaggio viene agevolata la fisiologica circolazione linfatica, in modo da migliorare il drenaggio dei liquidi in eccesso, che in genere, ristagnano a livello tessutale. Il maggior beneficio si ottiene però eseguendo un massaggio o tecnica specifica chiamata “linfodrenante”. BENEFICI PER L’APPARATO DIGERENTE Soprattutto in questo periodo storico molte persone, a causa delle incertezze sul futuro, dell’aumento del costo della vita ecc, hanno la tendenza a trattenere le emozioni a livello dell’addome con la conseguenza negativa di avere poi problemi di digestione. Attraverso manovre specifiche, che a volte possono anche risultare fastidiose o leggermente dolorose, è possibile aumentare l’afflusso di sangue, dare maggior libertà di movimento a livello connettivale migliorando la fase della digestione anche in caso di gastrite. Oltre allo stomaco, e forse in maniera anche molto più evidente, trova giovamento anche l’intestino in quanto il massaggio stimola la perilstasi e si favorisce la progressione del contenuto del colon verso il retto favorendone l’espulsione. Il massaggio è pertanto indicato anche in caso di stitichezza. RESPIRAZIONE Anche per quanto riguarda la respirazione è possibile notare dei benefici dovuti al massaggio, soprattutto se vengono trattati i muscoli intercostali e del diaframma. Quest’ultimo infatti è un muscolo respiratorio ed è la prima vittima di stati di stress: la prima cosa che
Il Deterioramento Cognitivo Post-Cancro (PCCI) si osserva in un numero considerevole di donne sopravvissute al cancro al seno, persistendo fino a 20 anni in alcuni sottogruppi ed è in costante aumento considerando che i tassi di mortalità delle patologie oncologiche stanno diminuendo. Il PCCI viene spesso chiamato, soprattutto negli Stati Uniti, “chemo brain” o “chemo fog”. Questi termini, come da definizione del National Cancer Institue (NIH), vengono utilizzati per descrivere i problemi di pensiero e di memoria che un paziente affetto da cancro può avere prima, durante o dopo il trattamento chemioterapico. Segni e sintomi del “chemio brain” includono comportamento o pensiero disorganizzato, confusione, perdita di memoria e difficoltà a concentrarsi, prestare attenzione, apprendere e prendere decisioni. Le cause possono essere causate dal cancro stesso (come i tumori cerebrali) o dal trattamento del cancro, come la chemioterapia e altri farmaci antitumorali, la radioterapia, la terapia ormonale e la chirurgia. La maggior parte lo definisce, come gìà anticipato, come una diminuzione della “nitidezza” mentale e lo descrive come l’incapacità di ricordare certe cose e avere problemi a finire compiti, concentrarsi su qualcosa o apprendere nuove abilità. Questi cambiamenti cognitivi possono rendere le persone incapaci di svolgere attività abituali come andare a lavorare, a fare la spesa oppure continuare a mantenere relazioni sociali. Molte persone aspettano ad informare il proprio medico di base oppure gli specialisti in oncologia di questo cambiamento cognitivo fino a quando non vengono drasticamente ridotte le loro normali attività quotidiane. Dal momento che è importante ottenere aiuto e supporto, sarebbe invece necessario informare i medici relativamente a questi cambiamenti non appena si palesano, anche se all’inizio possono essere piccoli. Vediamo ora nel dettaglio alcuni esempi di ciò che possono sperimentare i pazienti con “chemo brain”: dimenticare cose che di solito non hanno difficoltà a ricordare (vuoti di memoria); difficoltà di concentrazione (non riescono a concentrarsi su ciò che stanno facendo, hanno una capacità di attenzione ridotta, possono facilmente distrarsi); difficoltà a ricordare dettagli come nomi, date e talvolta eventi importanti; difficoltà a fare più cose contemporaneamente come rispondere al telefono mentre si cucina; difficoltà ad imparare cose nuove; impiegare più tempo a finire le cose (il pensiero è disorganizzato, l’elaborazione di dati è più lenta); difficoltà a ricordare parole comuni; Per la maggior parte delle persone questi cambiamenti mentali durano solo poco tempo, per altre invece possono durare anche molti anni. La durata della “chemo brain” è un fattore importante in quanto influisce sulla qualità della vita di una persona; quando inizia, quanto dura e quanti problemi provoca può essere diverso per ogni paziente. I trattamenti per aiutare le persone che soffrono di deficit cognitivo post cancro possono includere: riabilitazione cognitiva: si tratta di attività volte a migliorare le funzioni cerebrali come l’apprendimento, la memorizzazione, la capacità di acquisire nuove informazioni ed eseguire nuovi compiti; esercizio: può migliorare il pensiero e la capacità di concentrazione. Attività come il giardinaggio, prendersi cura di animali domestici o camminare possono aiutare a migliorare i livelli di attenzione e concentrazione; meditazione: può aiutare a migliorare la funzione cerebrale aumentando la concentrazione e la consapevolezza. Da recenti studi si evince che il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® e il Neurofeedback “tradizionale” (o Biofeedback eeg) possono ridurre il decadimento cognitivo post-cancro. Le persone sottoposte a sedute di Biofeedback EEG o a Neurofeedback Dinamico hanno avuto miglioramenti cognitivi come la memoria, la lucidità mentale, la capacità di concentrazione, la capacità di acquisire nuove informazioni e di organizzare compiti più o meno difficili. Anche dal punto di vista fisiologico (miglior qualità del sonno) ed emotivo (minor ansia, minor depressione) i risultati sono stati incoraggianti. La ricerca più interessante è stata condotta nel 2013 dal dott. Jean Alvarez coadiuvato dal suo team (Dott. David L. Granoff, Dott. Fremonta L.Meyer e Dott Allan Lundy). Potete scaricare i risultati di tale ricerca qui. Concludendo, analogamente alle tendenze nelle neuroscienze cognitive, le attuali strategie di neurofeedback riflettono due direzioni diverse ma complementari: una guidata da un focus sulla localizzazione e l’altra da un focus sulla funzione cerebrale globale. L’approccio più comune, con le sue radici nella scuola di localizzazione delle neuroscienze (Neurofeedback classico o Biofeedback EEG), potrebbe essere caratterizzato come un approccio di “diagnosi e trattamento”, in cui vengono identificate anomalie nelle frequenze delle onde cerebrali in luoghi particolari, di solito per mezzo di un EEG quantitativo. Ricercatori e clinici hanno identificato modelli EEG comunemente associati a particolari sintomi e l’apparecchiatura di neurofeedback può essere programmata per premiare il cervello per aver spostato la sua attività lontano dai modelli associati ai sintomi. Nel biofeedback EEG (neurofeedback), una visualizzazione in tempo reale dell’attività elettrica del cervello, restituita come informazione visiva o uditiva, consente all’utente di modificare l’attività delle onde cerebrali. Il presente studio ha utilizzato un nuovo approccio al neurofeedback, radicato nella visione globale della funzione cerebrale. Il sistema NeurOptimal®, sviluppato dalla Zengar Institute (www.Zengar.com) è progettato per allenare il cervello nel suo insieme, senza riferimento a posizioni o frequenze particolari. A differenza degli approcci classici di neurofeedback, in cui il partecipante si impegna attivamente e/o consapevolmente con il software ed è ricompensato per la produzione di schemi EEG prescritti, il partecipante all’approccio Zengar semplicemente “lascia andare” e consente al cervello di utilizzare il feedback, fornito come breve interruzioni della musica che sta ascoltando, per abilitare la sua innata capacità di auto-organizzazione. N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e che non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche. È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione. Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.
Il termine “caregiver” deriva dall’unione di due parole inglesi: “care” che significa “cura“e “giver” che “colui che dà“. Il caregiver è quindi colui che dà cura, che accudisce e che dà assistenza ad un malato o ad una persona che ha perso totalmente o parzialmente la sua autonomia nel vivere quotidiano. Può essere un familiare o un professionista: nel primo caso lo fa volontariamente e gratuitamente per scelta o necessità. Il caregiver, quindi, si occupa di soddisfare i bisogni primari della persona che assiste come per esempio occuparsi della sua igiene personale, della vestizione, della preparazione dei pasti, della somministrazione delle medicine ecc. Inoltre può interfacciarsi con le strutture sanitarie o dover accompagnare la persona a fare visite, controlli in ospedale o semplicemente a comprare dei vestiti o altre necessità. In altre parole la persona che viene aiutata non è, nella maggior parte dei casi, in grado di usicre da sola, occuparsi delle faccende domestiche, curare sè stessa e questi sono i compiti che il caregiver è chiamato a fare. Da fonti istat del 2015 si stima che i caregiver in Italia siano 7.300.000 e si prevede che possano negli anni continuare ad aumentare visto che il nostro paese è sempre più abitato da persone anziane. Il caregiver è una figura di assoluta importanza e lo sarà sempre di più negli anni a venire; nella maggior parte dei casi si tratta di donne (35%) con età media di circa 50 anni mentre per quanto riguarda gli uomoni si tratta di circa un 30%. Nel rimanente 35% dei casi si tratta di famiglie che, non potendo occuparsi del familiare, hanno deciso di rivolgersi ad una Rsa o ad una struttura specializzata. La persona che viene aiutata invece è rappresentata per il 20% da un figlio/a, per il 14% dal partner e per il 66% da un genitore. Attraverso questo articolo voglio porre l’attenzione sulle problematiche e sulle fatiche che il caregiver è chiamato ad affrontare e di come il counseling può supportarlo in maniera efficace. Le problematiche che incontra “colui che dà cura” sono rappresentate da tre dimensioni: a) la dimensione personale (esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale); b) la dimensione relazionale (rischio di isolamento, diminuzione socialità); c) la dimensione spirituale (difficoltà nel trovare un senso esistenziale, umano e spirituale). Chi riveste questo ruolo è spesso gravato da un carico di fatiche che aumenta col passare del tempo in quanto il malato con l’avanzare dell’età sarà sempre meno autosufficiente. Si inizia con l’accorgersi che il proprio caro necessita di un accompagnamento in quelle attività che fanno parte della vita quotidiana come il fare la spesa, piuttosto che pagare le bollette, andare a fare una passeggiata. Ci si accorge che magari la persona inizia a perdere la memoria e ha la necessità di essere aiutata; man mano che la malattia avanza c’è la necessità di accompagnare la persona nel soddisfacimento dei bisogni primari (mangiare, bere, muoversi…). I carichi di lavoro del caregiver vengono normalmente distinti in quattro categorie: il carico oggettivo, cioè il tempo che il caregiver deve dedicare al malato e che necessariamente sottrae a sé stesso con tutto quello che ne consegue; il carico fisico che è la fatica che fa chi si dedica al proprio caro prendedosene cura. E non si parla solo di fatica fisica, ma anche psicologica. Basti pensare a chi si prende cura di un malato di Alzheimer che deve necessariamente occuparsi di lui 24 ore su 24; il carico sociale che è collegato al fatto che il caregiver deve rinunciare al tempo che prima utilizzava per vedersi con gli amici, fare sport o altre attività, lavorare. Col passare del tempo si può sentire sempre più solo e isolato; il carico emotivo che inizia immediatamente in quanto si assiste al cambiamento del proprio caro e non si conoscono le dinamiche che ne conseguono. Non si conosce la malattia che può dare molto fastidio e disturbare. I caregiver spesso lamentano meno energia, stanchezza eccessiva, incapacità di recuperare le forze col normale riposo. I limiti fisici o emotivi vengono oltrepassati. Sommando tutti questi carichi la situazione diventa ovviamente difficile da sopportare. In base a tutto quello che ho fin qui descritto possiamo identificare i seguenti fattori critici nel “caregiver familiare”: stress prolungato dovuto alle cure fisiche ed alle modificazioni dei ruoli precedenti alla malattia; incessante supporto emotivo fornito al partner malato; diminuzione della qualità della vita; il vissuto emotivo dell'”essere in trappola”, come se ogni spazio personale fosse invaso; sentimento di isolamento sociale; gestione dei trasporti del malato, commissioni, compiti domestici. Ecco che l’intervento di un counselor professionista può essere veramente utile per supportare il caregiver soprattutto nella gestione di queste dinamiche: non accettazione della malattia; mancanza di spazi e tempo per sé; vissuti emotivi contrastanti; vivere relazioni conflittuali con la famiglia; avere difficoltà comunicative co la famiglia o con gli operatori dell’assistenza. Inizialmente, di fronte ad una malattia di un proprio caro, ci possono essere delle reazioni iniziali di confusione, incredulità e negazione. In questa fase è importante aiutare la persona a prendere consapevolezza della malattia gestendo le varie reazioni emotive che possono scaturire da tale situazione. Successivamente si dovrà aiutare il cliente ad accettare la nuova situazione e il nuovo ruolo che egli dovrà eseguire, cioè quello del caregiver; piano piano sarà in grado di affrontare le proprie sofferenze e superarle. Una caratteristica che accomuna molti caregiver è la “difficoltà di delega”, cioè la difficoltà di farsi aiutare da qualcun altro alleggerendo in questo modo il suo lavoro nell’accudimento del proprio caro. Un altro problema da gestire è la mancanza di spazi e di tempo per sé. Il caregiver fatica ad occuparsi di sé e questo può essere molto dannoso per la relazione con il malato. Un caregiver stanco e frustrato sarà sicuramente meno calmo, meno empatico con la potenzialità di diventare inefficace. Compito del counselor sarà quello di aiutare il cliente a immaginare nuovi scenari in cui si prenderà cura di sé, fissare degli obiettivi e poi passare all’azione. Anche i sentimenti e il
L’Alzheimer è un tipo di demenza che colpisce la memoria, il pensiero e il comportamento i cui sintomi diventano progressivamente così gravi da interferire con le attività quotidiane. L’Alzheimer è la causa più comune di demenza, un termine generico che viene utilizzato per indicare la perdita di memoria e altre capacità cognitive che possono peggiorare tantissimo la qualità della vita e ridurre tantissimo l’autonomia e l’indipendenza di una persona. Si stima che l’Alzheimer rappresenta tra il 60% e l’80% i casi di demenza; non è una counseguenza del normale processo di invecchiamento, nonostante il più grande fattore di rischio noto sia l’aumento dell’età e la maggior parte delle persone che soffrono di questa malattia ha dai 65 anni in su. È una malattia progressiva in cui i sintomi della demenza peggiorano gradualmente nel corso degli anni. Nelle sue fasi iniziali la perdita di memoria è lieve, ma in fase avanzata gli individui perdono la capacità di portare avanti una conversazione e rispondere agli stimoli esterni ed essere quindi incapaci di iniziare, proseguire e portare a termine qualsiasi tipo di azione in maniera autonoma: vestirsi, andare in bagno, mangiare, occuparsi della propria igiene intima, lavarsi ecc. In media una persona con Alzheimer vive dai 4 agli 8 anni dopo la diagnosi, ma può vivere fino a 20 anni a seconda di vari fattori. Il sintomo più precoce è la difficoltà di ricordare le informazioni appena apprese, oltre a confusione mentale e perdita di memoria; tutte questi sintomi possono essere il segnale che le cellule del cervello stanno morendo. I cambiamenti dell’Alzheimer iniziano nella parte del cervello che influenza l’apprendimento. Man mano che la malattia avanza nel cervello porta a sintomi sempre più gravi tra cui disorientamento, sbalzi di umore e cambiamenti comportamentali, una forte confusione su eventi, tempi e luoghi, sospetti infondati su familiari, amici od peratori sanitari, perdita di memoria anche grave, aggressività oppure profonda apatia, difficoltà a parlare, deglutire o camminare. Nelle fasi medie o avanzate il malato inizia a perdere la memoria e a non riconoscere più i propri familiari. Molto spesso la persona affetta da Alzheimer non si rende conto di avere un problema, che viene però individuato da familiari o amici in quanto testimoni di questi cambiamenti cognitivi e comportamentali. Gli scienziati affermano che la malattia di Alzheimer possa essere causata dall’accumulo progressivo nel cervello di una sostanza tossica chiamata “betamiloide”, una proteina ha un effetto nocivo sul metabolismo e sulla vita dei neuroni. La betamiloide è possibile vederla obiettivamente nel cervello utilizzando dei microscopi attraverso i quali si possono notari delle “placche o grumi” o dei “gomitoli” che rappresentano appunto l’accumulo di tale sostanza che causa la morte progressiva dei neuroni. Una delle acquisizioni più importanti che abbiamo a livello scientifico è che l’amiloide inizia ad accumularsi non in età avanzata, bensì già dalla mezza età, intorno ai 40/50 anni. Col passare del tempo, in alcune persone, l’accumulo di questa sostanza tossica supera una certa soglia e la persona inizia ad accusare i primi sintomi che la portano poi alla diagnosi di Alzheimer. Non tutti i cervelli accumulano betamiloide. Ci sono dei casi molto fortunati in cui l’accumulo è nullo oppure estremamente lento che la persona non svilupperebbe la malattia di alzheimer nemmeno se campasse 120 anni. Non tutta la comunità scientifica è d’accordo a riguardo. Alcuni scienziati affermano che l’accumulo di questa proteina sia l’effetto della malattia e non la causa. È evidente che la qualità della vita del malato di Alzheimer diminuisce proporzionalmente all’aggravarsi dei sintomi e coinvolge anche chi si prende cura di lui, normalmente un familiare di primo grado: spesso è il coniuge, ma anche uno o più figli, il fratello o la sorella…. Queste persone vengono definite “caregiver” dall’inglese “care” che significa cura e “giver” che significa colui che da”. Il caregiver può essere anche esterno alla famiglia come per esempio un badante. Normalmente il caregiver familiare si occupa del malato dalla mattina alla sera ed è spesso sottoposto a forte stress. Il caregiver nel suo compito può incontrare problemi che intaccano: la dimensione personale; la dimensione relazionale: la dimensione spirituale. Per quanto riguarda la dimensione personale il caregiver può andare incontro ad un esaurimento emotivo: in questo caso sperimenta la sensazione di aver oltrepassato i propri limiti sia fisici che emotivi. Si sente incapace di recuperare ed è ormai privo dell’energia per affrontare nuovi progetti o persone. Inoltre le energie impiegate nella cura della persona malata possono intaccare le relazioni del caregiver che non ha più la voglia di coltivare le amicizie e ricavarsi del tempo per sè. A livello spirituale il caregiver può trovare difficoltà nel dare un senso esistenziale e umano all’esperienza che sta vivendo. Il Neurofeedback Dinamico Neuroptimal® si è dimostrato essere un ottimo intervento per aiutare sia i malati di Alzheimer che i Caregiver che li assistono. Una ricerca promossa dalla dott.ssa francese Nathalie Gunther, psicologa clinica e supervisionata dal dott. Thierry Hergueta, psicologo e psicoterapeuta, ha dato importanti e significativi risultati. Dopo un ciclo di sessioni di Neurofeedback Dinamico i clienti con Alzheimer sono migliorati dal punto di vista comportamentale (meno aggressività, più collaborazione), emotivo (meno ansia, apatia o irritabilità), fisiologico (miglior qualità del sonno). In sostanza, pur non potendo intervenire direttamente sulla malattia, il Neurofeedback Dinamico è risultato marcatamente efficace nel migliorare la qualità della vita dei soggetti con Alzheimer. Per quanto riguarda i loro careviger, Neuroptimal® ha evidenziato notevoli potenzialità per rendere queste persone più resilienti, alleggerirli dal peso dell’accudimento diminuendone lo stato ansiogeno e stressogeno. Se volete vedere le slide e i dettagli di tare ricerca cliccate qui. N.B.: Neuroptimal® non è un dispositivo medico e non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche. È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione. Il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità
Il cambiamento è una costante della realtà a cui non è possibile sottrarsi. È sufficiente osservare la natura o le persone per rendersi conto di tutte le continue trasformazioni a cui sono soggette. La consapevolezza del cambiamento è più evidente quando noi ne facciamo esperienza diretta. Ma in definitiva come possiamo definire il cambiamento o meglio cosa può costituire: una necessità: la crisalide che diventa farfalla per nor morire; un adattamento: ad esempio quando due genitori cambiano le loro priorità individuali e di coppia per amore dei figli; un’opportunità; quando una persona vuole rimettersi in gioco perchè stanca della situazione che sta vivendo. Il cambiamento può essere visto anche come “il caos creativo della vita” oppure “la consapevolezza del rinnovarsi del tempo e della vita”. Lo viviamo tutti, nelle forme più svariate, nella soggettività delle percezioni, attraverso un’ampia gamma di sfumature emotive, elaborando profonde riflessioni o rimanendo sulla superficie del significato con le parole di tutti i giorni. La ruota della nostra storia ha sempre girato intorno a due assi incrociati: la paura del nuovo ed il coraggio di cambiare. Il cambiamento può mettere in crisi una persona. La parola crisi viene dal greco “krisis” e significa “trasformazione”, ma anche “separazione, scelta, giudizio”. Quando ad esempio una persona scompare viviamo questo cambiamento come una separazione che ci genera un dolore fortissimo; anche ogni decisione che prendiamo comporta la scelta di una direzione da prendere che ci costringe a cambiare schemi, comportamenti, riferimenti conosciuti per svilupparne altri del tutto nuovi: “tutto cambia, nulla è per sempre”. Il cambiamento può essere scelto o subito, imposto o promosso, aspettato oppure inaspettato…. A volte rappresenta una scelta per cambiare qualcosa che non ci piace o non ci soddisfa: vogliamo dimagrire e quindi decidiamo di “metterci in dieta”, non siamo soddisfatti a livello professionale e cerchiamo un nuovo lavoro ecc ecc.. Possiamo, in sintesi, indicare il cambiamento come: la natura stessa della vita, la sua caratteristica più distintiva; un evento oppure una situazione che ci colpisce come un qualcosa di nuovo o di diverso che, dal nostro punto di vista, prima non esisteva o non era conosciuto; un comportamento intenzionale od una strategia che mettiamo in atto per raggiungere uno “stato desiderato” a livello personale, professionale o esistenziale; una dimensione sociologica che riguarda “il progresso” delle comunità umane e quindi degli individui che ne fanno parte. Ognuno di noi è chiamato ad essere il timoniere che governa il veliero della propria vita, in un oceano di cambiamenti e trasformazioni. Per governare i cambiamenti in modo soddisfacente, così come del resto per vivere, sono necessarie le passioni, come ad esempio quelle che viviamo nella vita personale, affettiva e lavorativa: sono i venti che ci condurranno nel tranquillo porto della saggezza. Occorre quindi avere chiara la “rotta da seguire” : uno stile di vita intelligente, essere pronti e bravi a recuperare le “derive” che metaforicamente rappresentano i momenti di crisi, evitando in questo modo pericolosi “naufragi” come ad esempio malesseri o patologie o ritrovarsi “in secca” in fasi di stallo prolungato. Sviluppare la capacità di governare i cambiamenti significa, da un lato, saper riconoscere le cosiddette “invarianze”, dall’altro, bisogna saper riconoscere cosa è soggetto a cambiamento e viverlo in maniera attiva e consapevole: bisogna nuotare nella corrente della vita, cercando a volte anche degli appigli per riposarsi e non farsi trascinare o sballottare dai flutti. L’immagine di un mondo che fugge risucchiando vorticosamente dietro di sè le vite delle persone e delle nazioni, di tutto il mondo, rappresenta una tipica icona dell’era contemporanea. Nuovi rischi e nuove incertezze si alternano o si sovrappongono a nuove opportunità e nuove scoperte, nessuno può “far finta di nulla” o ritenersi escluso dalla globalizzazione. È necessario configurare un sistema di ancoraggio interno per essere pienamente “centrati in sé stessi durante la gestione di momenti critici e cambiamenti potenzialmente destabilizzanti, come ad esempio un mancato raggiungimento di un obiettivo personale, un fallimento in un rapporto affettivo o la perdita di un lavoro. Essere centrati in sé stessi in termini di autostima, calma e lucidità di pensiero. Le persone che nel tempo diventano abili nell’applicare la tecnica dell’ancoraggio in sé stessi, nelle situazioni di criticità, sviluppano tutto il loro potenziale nell’affrontare e risolvere problemi, nel rafforzare l’autostima e nel rendere il proprio equilibrio interiore refrattario alla negatività emanata da certe persone o insita in alcune circostanze indesiderate. Senza la capacità di ancorarsi in sé stesse, le persone si ritrovano in balia degli eventi o “vanno avanti” per inerzia. Le persone equilibrate, nel corso della loro vita assecondano o guidano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e di miglioramento, assumendosi in prima persona la “responsabilità” del governo degli eventi. Tali significati sono alla base, ad esempio, del concetto anglosassone di “Empowerment” che possiamo tradurre con le parole “Conferire potere, dare potere”…. Le persone “empowered” sanno come comportarsi, come agire, come intervenire. Chi riesce a governare in modo intelligente le evoluzioni personali e lo scenario nel quale si trova a vivere, senza ritrovarsi in balia delle circostanze, ha sicuramente una marcia in più ed in qualche caso anche la trazione integrale rispetto a quelle persone che passano la vita a “grattare” con la vana speranza di vincere qualcosa. Ognuno di noi affronta bene o male le sue piccole o grandi difficoltà della vita, ma quello che oggi possiamo osservare è il fatto che sempre più persone reagiscono patologicamente ai cambiamenti “imposti” della vita. Infatti possiamo identificare “persone equilibrate“, cioè individui che assecondano e governano i cambiamenti cercando di trarre opportunità di crescita e “persone patologiche” che reagiscono, apputno, in maniera patologica ai cambiamenti. Per la maggior parte delle persone, nella realtà, non è mai facile affrontare un cambiamento, soprattutto quando è imposto o imprevisto. Il “segreto” sta comunque nel viverlo nel modo più costruttivo e impositivo possibile, traendo spunti per il futuro. La strategia consigliata è di lavorare su sé stessi attraverso il porsi alcune domande riflessive e stabilire piani d’azione utilizzando le risposte che ognuno si è dato o ha ricevuto
La Dottoressa Linda Beckett Md e il Dr. Janet McCulloch Md, fondatori dell’ Istituto di Psicoterapia e Neurofeedback a Kingston, Ontario (Canada), hanno condotto nel 2010 una ricerca per verificare gli effetti delle sessioni di Neurofeeddback Dinamico sui sintomi di ansia e depressione. L’ansia è uno stato psichico di un individuo, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di intensa preoccupazione o paura, relativa a uno stimolo ambientale specifico, associato a una mancata risposta di adattamento da parte dell’organismo in una determinata situazione che si esprime sotto forma di stress per l’individuo stesso. La sua forma patologica costituisce i disturbi d’ansia. L’ansia è una complessa combinazione di emozioni che includono paura, apprensione e preoccupazione, ed è spesso accompagnata da sensazioni fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea, tremore interno, mal di pancia, dolori intestinali. Può esistere come disturbo cerebrale primario oppure può essere associata ad altri problemi medici, inclusi altri disturbi psichiatrici. I segni somatici sono dunque un’iperattività del sistema nervoso autonomo e in generale della classica risposta del sistema simpatico di tipo “combatti o fuggi“. Si distingue dalla paura vera e propria per il fatto di essere aspecifica, vaga o derivata da un conflitto interiore. L’ansia sembra avere varie componenti di cui una cognitiva, una somatica, una emotiva, una comportamentale. La componente cognitiva comporta aspettative di un pericolo diffuso e incerto. Dal punto di vista somatico (o fisiologico), il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’emergenza): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno e quelle digestivo diminuiscono. Esternamente i segni somatici dell’ansia possono includere pallore della pelle, sudore, tremore e dilatazione pupillare. Dal puto di vista emotivo, l’ansia causa un senso di terrore o panico, nausea e brividi. Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia comportamenti volontari sia involontari, diretti alla fuga o all’evitare la fonte dell’ansia. Questi comportamenti sono sono frequenti e spesso non-adattivi, dal momento che sono i più estremi nei disturbi d’ansia. In ogni caso l’ansia non sempre è patologica o non-adattiva: è un’emozione comune come la paura, la rabbia, la tristezza e la felicità, ed è una funzione importante in relazione alla sopravvivenza. (Fonte: Wikipedia) La depressione è una patologia psichiatrica piuttosto diffusa che può interessare tanto gli adulti, i giovani e gli anziani, quanto i bambini. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la malattia depressiva non interessa solamente la sfera emotiva e l’umore del paziente, ma interessa anche il corpo, influenzando comportamenti e manifestandosi anche con sintomi fisici. La depressione può manifestarsi sia in pazienti di sesso maschile che in pazienti di sesso femminile, tuttavia, si stima che la malattia tenda a colpire maggiormente quest’ultima categoria. I criteri per la diagnosi di depressione sono elencati d DSM-IV (Manuale diagnostico-statistico delle patologie psichiatriche) Occorre che 5 o più dei seguenti sintomi siano stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentino un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi dev’essere costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o come osservato da altri. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno. Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno. Affaticamento o mancanza di energia quasi ogni giorno. Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni giorno. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l’elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio. Occorre inoltre che: I sintomi causino disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre importanti aree. I sintomi non siano dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale. I sintomi non siano meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita di una persona cara i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio. (Fonte: www.fondazioneveronesi.it) A seconda di vari fattori esistono vari tipi di depressione: maggiore, reattiva, endogena, infantile, adolescenziale, senile, post-partum, bipolare ecc ecc. Attraverso le sessioni di Neuroptimal® i ricercatori (Dottoressa Linda Beckett Md e il Dr. Janet McCulloch Md) coinvolti hanno potuto riscontrare una significativa riduzione dei sintomi sia dell’ansia che della depressione. Per visionare o scaricare i risultati di tale ricerca clicca QUI. È importante, per quanto mi riguarda, ricordare che Neuroptimal® non è un dispositivo medico e che non necessita di diagnosi e protocolli. Può essere utilizzato da counselor e psicologi-psicoterapeuti e non necessita di titoli o competenze mediche. È uno strumento che ha come obiettivo migliorare la plasticità del cervello attraverso un allenamento che lo stimola ad attivare un processo del tutto naturale di autoregolazione. La Food & Drug Administration ha inserito il Neurofeedback Dinamico come prodotto di “General Welness” cioè benessere generale. Infatti il suo utilizzo ha come scopo quello di migliorare il benessere dei clienti ottimizzandone la plasticità neuronale; non si vuole sostituire al lavoro di medici e psicoterapeuti poichè non tratta e non si pone come obiettivo la risoluzione di patologie e sintomi di stretta pertinenza medico-sanitaria.
La solitudine può essere considerata una sensazione naturale che arriva quando il rapporto con l’altro non soddisfa o non rispecchia le nostre esigenze. È anche un elemento antropologico costitutivo dell’essere umano: l’uomo nasce solo e muore solo. La motivazione che spinge molte persone ad iniziare un percorso di counseling è molto spesso la solitudine; c’è infatti la tendenza all’incapacità di sopportarla e quindi ad attuare vari tentativi per sfuggirne attraverso comportamenti indadeguati, a volte distruttivi come per esempio: buttarsi sul cibo, essere iperattivi, cercare scappatoie su internet, assumere alcool oppure droghe, ricercare compagnia in modo morboso. La solitudine crea sofferenza, ma se si riesce a “sfruttarla in modo positivo” ci porta a prendere coscienza del problema, adattare strategie per farvi fronte, comportarci in modo diverso, ma soprattutto a: gestire meglio le nostre emozioni; costruire relazioni più sane. In poche parole ci aiuta a evolvere. L’essere umano è fondamentalmente un “essere sociale” e quindi è portato e predisposto alla relazione. Ma la relazione implica anche la solitudine: chi sa stare da solo sa anche relazionarsi all’altro in modo sano: se io non temo di scendere nella mia propria interiorità posso affrontare l’incontro con l’altro. È necessario quindi imparare a sentirsi bene in compagnia di noi stessi in quanto, se ciò non avviene: ci si avvicina agli altri in modo inappropriato; si usano gli altri per soddisfare i propri bisogni; non è uno “stare insieme creativo”. La solitudine è anche un profondo incontro con sé stessi, ci pone davanti ai quesiti fondamentali dell’esistenza: Qual è il senso della vita? Chi siamo? Cosa pensiamo e vogliamo fare di noi stessi? Quale posto occupiamo nel mondo? Che rapporti abbiamo con gli altri? La risposta a questi quesiti favorisce la scoperta di sé e l’accettazione dei propri limiti. In ogni caso la solitudine è un’esperienza condivisa da tutti di cui facciamo esperienza già al momento della nascita quando veniamo separati da nostra madre perdendo uno stato particolare in cui eravamo. È inscritta nella logica dell’esistenza umana e compare in tutte le stagioni della vita, possiamo infatti osservare la solitudine nel bambino, nell’adolescente, nell’adulto e nell’anziano. La solitudine che sperimenta il bambino è spesso una solitudine emotiva che deriva dal mancato soddisfacimento dei bisogni primari: essere contenuto, sostenuto e ascoltato. Nell’adolescente è causata spesso dall’uso maniacale di internet e della tecnologia che crea un allontamento dei ragazzi dalla società. Negli adulti arriva nei momenti di passaggio verso la mezza età o nell’età anziana, ma in modo più acuto si può sperimentare quando ad esempio i figli se ne vanno, si resta vedovi, si divorzia o si va in pensione. La solitudine degli anziani è caratterizzata da elementi oggettivi come la perdita di persone care, malattie o ricoveri in Rsa. La solitudine può essere vissuta in modo positivo o negativo. Il primo caso (solitudine positiva) si verifica quando riusciamo a essere o stare soli senza sentirci isolati o vuoti e rappresenta un modo costruttivo di essere impegnati con sé stessi. È una situazione desiderabile in cui ci offriamo una meravigliosa e sufficiente compagnia, in cui possiamo pregare, attuare una ricerca interiore, contemplare la natura, essere creativi. Vissuta in questo modo la solitudine può essere vista come una benedizione che ci dona pace, ricchezza interiore, esperienza mistica e gioia. Nel secondo caso (solitudine negativa) rappresenta una stato emotivo in cui la persona fa esperienza di un sentimento più o meno intenso di: isolamento vuoto. Le persone si sentono tagliate fuori, disconnesse e alienate dagli altri. Vi è una grossa difficoltà nell’avere un contatto con gli altri. La solitudine negativa è principalmente causata da: esperienze negative relative alla prima volta in cui siamo stati lasciati soli da bambini; attaccamento insicuro; bassa autostima; legami familiari. La solitudine può essere imposta o scelta. Se imposta è facile che possiamo percepire sofferenza, impotenza, ingiustizia, incomprensione. Se scelta possiamo sperimentare conforto, energia, forza, pace interiore: chiaramente è meglio scegliere i propri momenti di solitudine che subirli. Ma fondamentalmente da dove nasce il senso di solitudine? E perchè la solitudine turba così tanto? Le risposte alla prima domanda sono principalmente tre: Una paura ancestrale. La solitudine rimanda al regno animale nel quale vivere da soli è pericoloso per la sopravvivenza. Da soli si è più vulnerabili. Un bisogno di interazione sociale. L’essere umano è un animale sociale per natura che ha bisogno di interagire con gli altri per evolversi e costruirsi. Una coscienza di essere. Gli essere umani sanno di essere mortali e quindi hanno bisogno di dare un senso alla vita. Le risposte alla seconda domanda sono molto più complesse. La solitudine fa riaffiorare ricordi dolorosi e situazioni tristi che abbiamo vissuto da bambini, ma siamo sempre stati impegnati in attività permanenti che non ci hanno per messo di imparare a gestirla e quindi da adulti la sfuggiamo in qualsiasi modo. L’inattività è sempre stata combattuta e siamo sempre stati inseriti in programmi fitti di impegni. Le conseguenze di questi atteggiamenti hanno fatto si che: non ci siamo abituati a capire ciò che si sente, si prova e vive dentro di sé; i bambini non capiscono e non sanno dare un nome alle loro emozioni; i bambini non sanno esprimere i loro bisogni e i loro stati d’animo. Da adulti come facciamo a confrontarci con la solitudine se non l’abbiamo sperimentata prima? Non è la solitudine a costituire un problema, ma la nostra tolleranza, la nostra sensibilità a questo tipo di situazione. Quindi cosa fare per gestire meglio la solitudine? Come posso aiutarti attraverso i colloqui di counseling a farti carico della solitudine? Ecco alcuni passaggi che posso applicare: definire insieme a te e con precisione le condizioni o le situazioni che scatenano le emozioni negative per poter prevenire ed evitare situazioni troppo stressanti; aiutarti a sviluppare una maggior consapevolezza di te stesso, dei tuoi bisogni e dei tuoi desideri; migliorare le tue competenze sociali (social skills); favorire l’azione, il sapersi organizzare, per non restare inattivo e passivo; favorire l’accettazione di te stesso e aiutarti ad amarti così come sei; favorire la
ADHD è una sigla, o meglio è l’acronimo inglese , che sta per: “Attention Deficit Hyperactivity Disorder”, cioè “Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività“. In ambito clinico l’ADHD è classificato come un disturbo del neurosviluppo che si manifesta nelle sue tre componenti: Per quanto riguarda la disattenzione la difficoltà del bambino è quella di inibire tutti quegli stimoli irrilevanti per i compito e a mantenere l’attenzione per un lasso di tempo sufficiente per terminare l’attività in cui è coinvolto sia esso un compito scolastico oppure un’attività sportiva. Il secondo sintomo è l‘iperattività che non è solo motoria come per esempio continuare ad alzarsi dal banco di scuola oppure a casa non riuscire a guardare interamente un film senza alzarsi continuamente dal divano, ma è anche verbale rappresentata dalla tendenza a parlare troppo, a non rispettare le regole conversazionali interrompendo gli altri quando parlano oppure a soprapporsi ad essi oppure a non rispettare l’argomento della discussione. Il terzo sintomo è l‘impulsività che è un pattern di risposta eccessivamente rapido agli stimoli ambientali nel senso che il bambino ad esempio tende a rispondere all’insegnante ancor prima che finisca una domanda con il rischio ovviamente di sbagliare. A volte può accadere che non tutti e tre i sintomi siano presenti in egual misura: ci possiamo ad esempio trovare di fronte ad un bambino che non presenta iperattività motoria, ma è in grande difficoltà se deve mantenere l’attenzione per poter ascoltare un insegnante o terminare un compitvo. Il disturbo ADHD diventa evidente nel corso della scuola primaria, soprattutto quanto aumentano le richieste di autoregolazione e autocontrollo e di mantenimento dello sforzo da parte della scuola. Alcuni segnali di disregolazione comportamentale e di disregolazione attentiva possono emergere già durante la scuola dell’infanzia che dovremmo essere in grado di rilevare per approntare gli adattamenti educativi necessari. È un disturbo che va a colpire non solo gli apprendimenti del bambino, ma anche il suo adattamento sociale, nel senso che il bambino con ADHD ha difficoltà a stare dentro i suoi spazi, ha difficoltà a rispettare le regole del gioco, ha difficoltà a rispettare le regole conversazionali ecc…. Quando parliamo di ADHD parliamo quindi di un modo in cui il cervello è strutturato, ma soprattutto di come il cervello funziona che viene definito “divergente” e che coinvolge più modalità: Spesso i bambini con ADHD presentano altri disturbi che rendono difficoltoso il loro percorso scolastico. Tra i disturbi che si associano all’ADHD abbiamo i disturbi dell’apprendimento (dislessia, disgrafia e discalculia). In alcuni casi siamo di fronte a una vera e propria comorbilità, in altri di tratta solo del disturbo ADHD che causa delle manifestazioni simili ai bambini che hanno disturbi dell’apprendimento. Oltre ai disturbi dell’apprendimento spesso si associano all’ADHD anche i disturbi del comportamento come ad esempio il disturbo oppositivo-provocatorio o il disturbo della condotta. Questo è un evento abbastanza frequente soprattutto quando nel corso dei primi anni di scuola il disturbo da ADHD non è stato diagnosticato oppure non è stato gestito in maniera efficace da un punto di vista educativo. Anche disturbi di ansia o disturbi dell’umore possono agire in comorbilità all’ADHD. È chiaro che in tutte queste situazioni l’intervento educativo divente molto più complesso. Diventà molto più complicato anche un intervento riabilitativo e terapeutico. Questo è uno dei motivi per i quali non dovremmo mai attendere troppo ad aiutare ad arrivare ad una diagnosi per poi intervenire in maniera adeguata. Anzi, un intervento educativo precoce spesso aiuta i bambini con ADHD ad evitare l’insorgenza di altri disturbi che rendono poi molto più complesso il quadro. Ma soprattutto individuare e trattare precocemente l’ADHD permette di evitare che negli anni a venire il bambino diventato adolescente posso adottare comportamenti pericolosi come l’uso di sostanze stupefacenti, le sfide in motocicletta, le corse in auto, il gioco d’azzardo ecc ecc. Insomma curarli e curarli in tempo diventa fondamentale. Normalmente un segnale a cui i genitori e gli insegnanti devono fare riferimento è se il bambino evidenzia i sintomi ADHD non solo a casa, ma anche negli altri contesti sociali come per esempio la scuola o nei contesti sportivi o di relazione con amici. Se i sintomi emergono solo tra le mura domestiche allora i genitori devono interrogarsi se le loro modalità educative sono adeguate. Per quanto riguarda le modalità di cura a volte il trattamento farmacologico diventa fondamentale. Generalmente, seguendo le linee guida inglesi ed europee, sotto l’età scolastica cioè sotto i sei anni non si da mai il farmaco, ma si fa un intervento di “parent training” e di “teacher training”, cioè si aiutano i genitori e gli insegnanti a gestire il comportamento del bambino. Con l’ingresso a scuola, se è una forma lieve, cioè in qualche modo contenibile non si da il farmaco e si inizia con il “parent training” e il “teacher training” e con una terapia cognitivo-comportamentale. Nelle forme più gravi dove si è di fronte a un forte isolamento, a una forte difficoltà di apprendimento e quindi le relazioni sono fortemente compromesse si prescrive anche il farmaco. In Italia il trattamento è sempre combinato: farmaco e psicoterapia. Per quanto riguarda l’utilizzo del Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal® uno studio che ha dato risultati molto buoni è stato presentato alla conferenza mondiale Zengar tenuta a Montreal nel 2018 da Gulnora Hundley, PhD, LMHC, LMFT & Caitlyn Bennett, PhD, LMHC con la collaborazione dell’ Università della Florida. I risultati del suddetto studio hanno evidenziato che le sessioni di Neurofeedback Dinamico hanno: Ps: nessun miglioramento è stato per ora osservato nel mitigare l’impulsività. Per scaricare i risultati e tutte le slide della ricerca in oggetto clicca quhttps://neuroptimal.com/research/#1468952261836-538bbafc-55edi. Posso affermare che anche nel mio studio ho potuto osservare questi effetti positivi, soprattutto se accettano di fare le sessioni anche almeno uno dei genitori. Dalle mie osservazioni e dialoghi ho sempre constatato che spesso i genitori soffrono di problemi di ansia o altro tipo e che il training con Neuroptimal® permette loro di ottenere un’autoregolazione del loro Sistema Nervoso Centrale che poi ha effetti benefici nelle dinamiche familiari.
Perchè ci stressiamo? Perchè nella società contemporanea spesso confondiamo l’essere con il fare e quindi ci è stato insegnato che noi siamo in virtù di quello che facciamo. Quindi il lavoro è diventato fondamentalmente la nostra definizione. Ci definisce in quanto esseri umani e da un’idea della nostra identità. Molti confondono chi siamo con il lavoro che facciamo. In realtà il lavoro è una fonte di sostentamento materiale, ma è un ambito in cui noi possiamo realizzarci e la necessità di trovare un lavoro che ci corrisponda sta crescendo con il passare delle generazioni. Lo stress da lavoro è sempre più presente nella nostra quotidianità e spesso può capitare che, alcuni sintomi all’inizio sottovalutati, alla lunga possano diventare dei fattori di stress cronicizzati. È un’insieme di fattori individuali ma anche della stessa organizzazione aziendale che possono portare la persona a sperimentare un “distress” cronico che si manifesta con una sintomatologia a livello fisico, psico-emozionale, comportamentale, addirittura presentando dei “marker” rilevabile attraverso gli esami del sangue, come ad esempio la prolattina o il cortisolo che è l’ormone dello stress. Spesso questo accade quando il lavoratore non si sente in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative del loro datore di lavoro. I sintomi più comuni comprendono la tachicardia, una stanchezza diffusa, una rigidità muscolare, improvvise sudorazioni, cefalee muscolo-tensive, emicranee; tutto questo accompagnato da sintomi cognitivi come una scarsa concentrazione, difficoltà a memorizzare nuove informazioni, un’irritabilità e un nervosismo diffuso. Anche a livello comportamentale accadono dei cambiamenti come ad esempio l’aumento di sigarette nei fumatori oppure un aumentato consumo di alcool che in qualche modo fanno da compensatori, da calmieranti. Alcuni tendono a isolarsi o a manifestare non proprio degli attacchi bulimici, ma una fame nervosa che li fa mangiare più del dovuto. In altre persone potremmo trovare dell’impulsività che potrebbe avere come conseguenza errori lavorativi anche gravi. Prima che questi sintomi possano raggiungere livelli elevati si può lavorare su sé stessi, cercando di avere più momenti di svago, di avere un’alimentazione corretta, cercare di coltivare relazioni appaganti soprattutto al di fuori dell’ambiente lavorativo, concedersi dei piccoli divertimenti disseminati durante la settimana. Innanzitutto, però, bisognerebbe scegliere un lavoro che rispecchia le nostre attitudini: ognuno di noi ha le proprie ambizioni e aspirazioni. Chiaramente dovremmo fare spesso dei compromessi. La maggior parte delle persone che vedo nel mio studio, però, non sono contente, sono frustrate di quello che fanno. Anche se guadagnano molto denaro, perchè l’essere umano ha bisogno di realizzare i propri sogni, le proprie ambizioni e le proprie attitudini. Diverso è il discorso per quanto riguarda il Burnout. Sebbene non sia ancora classificabile come malattia dall’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), la Sindrome di “Burnout” è un fenomeno che influenza negativamente lo stato di salute di coloro i quali esercitano professioni di sostegno e di aiuto in qualsiasi campo, da quello socio-sanitario fino alla sicurezza. Oggi però il fenomeno “burnout” si può riscontrare in qualsiasi organizzazione o azienda soprattutto in quei lavoratori che sono a contatto con il pubblico, sia liberi professionisti che dipendenti, e in molti casi si estende anche alla vita privata e si manifesta diversamente da persona a persona. La sindrome di burnout è un insieme di sintomi particolari che sono stati identificati negli studi psicologici effettuati negli ultimi quarant’anni che portano sostanzialmente a una “disaffezione” da parte delle persone, una sorta di esaurimento in cui l’individuo si sente svuotato di energia emotiva. Pur avendo delle cause che si collocano esternamente all’individuo, le persone più a rischio sono i migliori, quelli più innamorati del proprio lavoro; sono quelli che si dedicano con maggior forza. Perchè? Perchè quando investi molto emotivamente su qualcosa è ovvio che rischi di più quando senti che questo qualcosa ti tradisce, senti che ti viene meno. Quanto più alta è l’asticella quanto è più facile farsi male se si cade a terra. In origine, quando il termine fu inventato negli anni ’70, i lavoratori maggiormente a rischio erano i grandi manager: persone che si sentivano molto identificate con la propria azienda e laddove non riuscivano ad ottenere i risultati si sentivano talmente idenficati che percepivano essi stessi il fallimento. Quando poi il concetto viene poi preso in mano dalla celebre psicologa Cristina Maslach, lei ha notato che le persone colpite da burnout erano persone fragili, persone deboli, persone con bassa autostima e allora ci si chiede “dov’è il problema?”. Il problema non è tanto essere forti o deboli di carattere, ma bensì quando la soddisfazione di quello che si fa viene percepita in modo “mediato”, cioè attraverso qualcun’altro e per questo colpisce prevalentemente, almeno questo dice la letteratura classica, i professionisti d’aiuto perchè sentono la gratifica attraverso il riconoscimento altrui. Parliamo quindi di medici, infermieri, operatori socio-sanitari ecc ecc.che hannno bisogno di vedere la qualità del lavoro svolto attraverso il riconoscimento altrui. Sappiamo bene, però, che la qualità del lavoro di un professionista a volte non può riconoscersi direttamente nella percezione da parte della persona aiutata. Si parla molto spesso di empatia: quanto più tu sei coinvolto emotivamente con l’altra persona, quanto più tu rischi di uscirne a pezzi emotivamente. Anche nell’ambiente domestico troviamo il “burnout”.. Poichè si parla di “lavoro domestico”, quando tale lavoro non viene riconosciuto dagli altri componenti della famiglia si arriva al “disammoramento”. Il burnout si caratterizza per delle sindromi multiformi: paraddossalmente all’inizio ti impegni maggiormente e con più energia: questa sorta di “sovraimpegno” è la premessa che può portarti al burnout. Dovrebbe essere una fase che rappresenta una sorta di campanello d’allarme che dovrebbe portarti ad essere più realistico altrimenti corri un rischio. Poi c’è invece una seconda fase che paraddossalmente è quella della riduzione dell’impegno. Dopo che la curva dell’impegno è salita come oltresoglia essa poi tende a scendere e va troppo sottosoglia. Quindi perdi voglia di fare, tendi a distaccarti dalle persone, dai colleghi e ti allontanti. È una fase di allontamento. Poi c’è la terza fase che può avere due caratteristiche distinte: o l’aggressività o la fase depressiva. Il soggetto in fase tre di
L’insonnia è un problema molto frequente che arriva a coinvolgere almeno il 40% della popolazione almeno una volta nella vita e nel 10% dei casi raggiunge i criteri di insonnia cronica che genera dei risvolti negativi durante le attività quotidiane diurne. Esistono diversi tipi di insonnia che, dal punto di vista temporale, possono essere definiti come difficoltà nell’addormentamento o come un eccessivo risveglio precoce più volte durante la notte o nelle prime ore della mattinata. Sono molte le cause che possono provocare questo disturbo: cause mediche (malattie cardiologiche, respiratorie, ortopediche, oncologiche, neurologiche, psichiatriche); cattive abitudini nello stile di vita (alimentazione errata, eccessiva attività fisica, smodato uso di device come tablet o smartphone). Quando è necessario rivolgersi al medico? Quando il disturbo del sonno impatta negativamente durante le attività quotidiane, causando eccessiva sonnolenza, difficoltà di concentrazione o di memoria fino a provocare disturbi dell’umore come la depressione o l’ansia. Come superare l’insonnia? È necessario un intervento multidisciplinare che coinvolga neurologi, psicoterapeuti, psichiatri, medici di medicina funzionale, otorinolaringoiatri e nutrizionisti. Questo per permettere di inquadrare meglio il disturbo, escludere altre patologie concomitanti e prevedere una presa in carico il più possibile integrata, spicializzata e che possa comprendere sia trattamenti farmacologici che non farmacologici. Secondo le più recenti linee guida internazionali la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta il trattamento d’elezione nei casi di insonnia. Non è prettamente una psicoterapia, piuttosto un trattamento mirato al disturbo del sonno. Si basa sui modello psicofisiologici del sonno e agisce su tutte quelle caratteristiche comportamentali, cognitive e fisiologiche che mantengono il disturbo del sonno nel tempo. Uno studio sull’efficacia del Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal® sull’insonnia cronica è stato eseguito presso il Norwalk Hospital nel Connecticut (USA) nel 2007 dai dottori Okunola O., O’Malley E. E O’Malley M.
Un’importante ricerca, intitolata “Migliorare la regolazione emotiva utilizzando il training di Neuroptimal® su giovani con disturbi dello spettro autistico (Asd), è stata presentata da Doug West alla conferenza mondiale di Neuroptimal® “Trasforming Lives” che si è svolta a Montreal in Canada nel 2018. Doug West è un counselor clinico, arteterapeuta e un professionista del neurofeedback che lavora sia con i giovani che con gli adulti dal 1991. Ha una vasta esperienza nel trattare bambini con disturbo dello spettro autistico e altre patologie neuropsichiariche utilizzando il training con il Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal® (Neurofeedback Dinamico) in combinazione con le sue competenze di counselor e arteterapeuta e collaborando con medici o altri specialisti del settore.
Guarda questo bellissimo video che spiega molte cose sul neurofeedback dinamico. Per i sottotitoli in italiano: – clicca sulla rotellina impostazioni – nella sezione sottotitoli seleziona “traduzione automatica” – scorri nell’elenco e clicca su “italiano”
“Quando la musica diventa una sinfonia cerebrale” è il titolo del meraviglioso articolo scritto da Gianni Poglio e pubblicato da Panorama.it. Attraverso la sua lettura è possibile ottenere delle informazioni precise ed esaurienti sul funzionamento del Neurofeedback Dinamico in modo molto chiaro e semplice anche per chi si approccia per la prima volta a questo argomento. L’articolo esprime innanzitutto un concetto importante: il Neurofeedback Dinamico non è musicoterapia, bensì la musica rappresenta un vettore al servizio di una tecnica che permette al cervello di autocorreggersi ed autoregolarsi. All’interno dell’articolo sono presenti preziosi contributi della Dott.ssa Daniela Maria Pozzi, del Dott. Francesco Lanza e i riferimenti alla ricerca svolta dal dottor Aldo Messina e dal Dott Giorgio Raponi sugli acufeni. PER LEGGERE L’ARTICOLO DI PANORAMA CLICCA SUL LINK SEGUENTE: https://www.panorama.it/la-musica-diventa-sinfonia-cerebrale-neurofeedback-2651235594
Venerdì 04 giugno 2021 le dottoresse Tania Furini e Linda Bergamini sono andate in onda tramite una video intervista su Rete 55 all’interno della trasmissione “Vivere Bene”. Sono riuscite a presentare il Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal® in modo molto professionale e allo stesso tempo con un linguaggio comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”. Bravissime! Guarda il video
Viene definito acufene la percezione costante o discontinua di un fischio o di un ronzio che non sia causata da nessun tipo di stimolo, sia esso esterno che interno al nostro corpo. Le percezioni sensoriali vengono elaborate dal cervello tramite segnali bioelettrici che derivano dalla conversione operata da specifici recettori che nel caso dell’udito sono le cellule ciliate presenti nella coclea dell’orecchio interno. L’acufene è un sintomo che sta creando problemi a milioni di persone in tutto il mondo e sembra essere in costante aumento: sempre più persone ne soffrono. Per alcune persone è una situazione gestibile e che non influisce sulla loro qualità di vita. Per altre può essere veramente invalidante e creare disagi enormi sul piano cognitivo, emotivo e fisiologico: ansia, depressione, attacchi di panico, problemi del sonno, difficoltà di concentrazione, nervosismo.
Con il termine “Neurocounseling Dinamico” intendo la possibilità di integrare le neuroscienze, attraverso il Dynamical Neurofeedback® Neuroptimal®, nella professione di counseling per aiutare i clienti a raggiungere meglio i loro obiettivi, contemporaneamente all’ottenimento di un benessere psicofisico ottimale che possa essere sostenibile nel tempo. Il Neurocounseling Dinamico rappresenta la possibilità di utilizzare le due competenze che ho acquisito, quella di neurotrainer e quella di counselor, a vantaggio del cliente che può lavorare contemporaneamente su vari aspetti che si rafforzano in maniera reciproca. Da una parte il Neurofeedback Dinamico è utile per migliorare la plasticità cerebrale e ottenere benefici sul piano psicologico, fisico e cognitivo, dall’altra il counseling che rappresenta un processo relazionale che permette al cliente di aumentare il proprio livello di consapevolezza sulle proprie risorse e sui propri limiti, aiutandolo a pianificare strategie efficaci per raggiungere determinati obiettiv
Il Neurofeedback è una tecnica avanzata di allenamento cerebrale che trae origine dallo sviluppo delle neuroscienze.